C’era una volta una coppia formata da Cosimo Taurino e Severino Garofano. Che forti! Inventarono il vino in Puglia!
Detta così potrebbe sembrare frase offensiva nei confornti di chi c’era prima di loro e soprattutto delle tante aziende che hanno investito con passione su questo magnifico territorio nel corso degli anni. Ma la mia osservazione è da uomo impegnato nella comunicazione soprattutto. Per inventare, intendo dire quando si ebbe per la prima volta fuori dalla Puglia la percezione del livello a cui poteva arrivare una regione che in precedenza sembrava condannata solo a produrre uva, mosto e sfuso.
Era sicuramente una epopea favorevole alle novità, la spinta verso la conoscenza del vino sembrava irrefrenabile e, come sempre, il successo è un mix tra l’intuizione geniale e il momento opportuno nel quale riesce a manifestarsi. Faccio spesso l’esempio di Pisacane e Garibaldi, ove al secondo riuscì di fare quello che aveva in animo il primo appena tre anni dopo.
Il Patriglione esplode dunque per la sua esuberanza, è un vino del Sud per i suoi eccessi di materia e di surmaturazione, ma rivela anche uno stile pulito, netto, chiaro nel suo manifestarsi, annata dopo annata.
In breve Cosimo e Severino diventarono delle star in America dove questo vino prodotto nella terra d’elezione della viticoltura affascinò subito tutti.
Di recente, nell’ambito di Radici Wine Experience ad Altamura, con Franco abbiamo condotto una verticale che mi ha anche cambiato un po’ la prospettiva con la quale avevo guardato a questo vino in precedenza.
In questo senso: bevuto dopo un certo numero di anni, il Patriglione si sfina, prevalgono notte di estrema eleganza con la maturità, la freschezza intonsa accentua la sua bevibilità. Ci ho ripensato durante la mia Immacolata trascosa in una Puglia che amo sempre di più per la capacità di esprimere un Sud non incattivito e non incarognito come invece purtroppo sta accadendo a Napoli. Un Sud ancestrale fatto davvero di olivi, viti, mare, cielo azzurro e soprattutto spazio e silenzi.
Capito così in un ristorante tradizionale, becco la 1993 e la ordino con grandi aspettative. Penso anche che se ci fossero state, non dico molto, non più di altre quattro o cinque coppie come Cosimo e Severino, il Sud oggi potrebbe anche essere considerata una regione enologicamente matura e non ferma ancora al palo delle potenzialità.
Le aspettative non sono deluse, cari amici. E il senso di questo mio intervento nella rubrica è proprio per invitare gli appassionati a non avere remore: quando vi trovate una bottiglia di Patriglione, ance se con oltre dieci anni sul groppone, potete procedere tranquillamente.
Il vino, all’epoca negroamaro e malvasia, è perfettamente sano alla vista e dal punto di vista organolettico. Il colore è ancora rubino, non c’è segnale mattonato o evoluzione granata. Niente residui, nemmeno di fondo bottiglia. Il naso esplode con note di conserva, ma anche di rose secche, sfumatura di cannella, tabacco biondo, conserva di amarena. Mi piace sentirlo per tutta la cena, la sua compagnia dura quasi due ore e sempre c’è mutevolezza.
In bocca colpisce per la sua bevibilità nonostante l’alcol a quota 14,4. L’ingresso ha una iniziale nota dolce, di frutta non di legno o zucchero, a cui subentra la freschezza e l’immensa sapidità. La memoria olfattiva inizialmente riportata con le prime sensazioni si perde per fare largo a nuove sensazioni, di vivacità, velocità, chiusura piacevole, con i tannini presenti ma assolutamente risolti, il legno integrato nella frutta. Un vino che mantiene il suo carattere ma che mostra dopo 17 anni di aver raggiunto un equilibrio, una velocità di crociera che, sono sicuro, saprà mantenere per molti anni ancora.
Bellissima esperienza che, se accoppiata ad uno straordinario 1996 di Nero di Troia di Santa Lucia, questo provato insieme a Franco, dimostra ancora una volta le immense possibilità del continente pugliese.
Taurino,
Guagnano.
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