L’uva e il vino in Maremma (a quei tempi)4 min read

Il mio primo contatto con l’uva e col vino l’ho avuto dallo zio Erpidio in Vallerotana, la bella e bassa semiconca affacciata verso Grosseto sulla strada dello Sbirro, quella che dall’Aurelia del Bottegone porta a Roselle.

Lui era uno dei tanti mezzadri della fattoria degli Acquisti, proprietà dei conti Guicciardini Corsi Salviati. La vigna però lui ce l’aveva lungo l’Aurelia, prima del Bottegone, dove c’era la Casa Cantoniera dell’ANAS: una specie di collinetta, saranno una trentina di metri di dislivello, che scendeva dolce verso la ferrovia con una stupenda esposizione a sud ovest.
Non che a quei tempi ci si guardasse più di tanto, ma così era quella. Come per altre vigne era a coltura promiscua, nel senso che tra un filare e l’altro c’era un po’ di terreno coltivato e lungo i filari, a intervalli quasi regolari, c’erano piante di olivo, qualche frutto e qualche pianta di giunco in testata, giusto per rimediare il materiale per le legature.

Quando arrivava il momento io partivo con la mi’ mamma e ci si ritrovava tutti a casa dello zio dove erano convenute le altre zie, gli altri nipoti e altro parentado da tutta la Maremma. La prima cosa era la distribuzione delle forbici: a quelli più bravi toccavano le forbici da potino, quelle grosse con la molla a baco, poi finite queste s’attaccava a distribuire le forbici normali da casa. A me toccavano sempre queste, ma il mi’ zio Erpidio che mi voleva un bene dell’anima, ogni tanto me ne allungava un paio nuove di quelle vere, che non si sapeva da dove scappassero fuori.

S’andava nella vigna con il carro tirato dai buoi – Vespina e Lambretta si chiamavano – e sopra il carro c’era tutta la batteria dei bigonci per raccogliere l’uva. Quello era il mio posto preferito quando cominciava ad esserci un po’ d’uva. Allora cominciavo a spingere col batacchio (bastone in legno usato per schiacciare l’uva, n.d.r) tutto intagliato e poco dopo cominciavo a vedere quel mosto rosso scuro e con la schiuma e a sentire quell’odore che resta più buono dell’uva, anche quando questa diventa il vino migliore del mondo.
Era anche il posto privilegiato per scegliere qualche bella ciocca d’uva e prenderla a morsi come si fa con una fetta di cocomero, senza stare a togliere i semi. La mamma non voleva perché aveva paura ci fosse rimasta qualche vespa che poteva pizzicarmi in bocca.

Nella grande cantina di fattoria mi limitavo ad ubriacarmi con i profumi di mosto in fermentazione e di legno buono delle grandi botti. Potevo bere dal cinquino con la camicia (patina che si creava sul bicchiere dopo molto uso, n.d.r)  un po’ di mosto dolce o anche un leggermente fermentato, quando cominciava a frizzare un pochinino. Poi dopo stop, l’unica cosa che mi permettevano di bere a quell’età era la pimpa, cioè l’acqua che veniva fatta passare sulle vinacce già strette nel torchio. Non so se arrivava a qualche grado, ma ne dubito.

Era di un colore sciapo e un sapore tra l’asprigno e il dolcetto, mentre nella bottiglia che si portava in tavola sembrava la torba adatta per andare a mazzacchera per l’anguille (la pesca a mazzacchera si effettuava durante le piene del fiume, con l’acqua torbida, si usava un ombrello rovesciato per tenerci le anguille catturate n.d.r.)

Quando diventai più grande e in condizioni di bere un po’ di vino quello più buono l’assaggiavo sempre dal solito zio Erpidio. Specie il rosso nuovo, con quel colore incredibilmente bello che in natura non si ripete quasi mai.

Ma quello più buono di tutti lo assaggiai in fattoria ed era tutto un altro vino. Non sembrava nemmeno parente di quello che si beveva da noi. Veniva dalle fattorie di Gargonza e di Monte San Savino. Già il nome di quest’ultima, che mi ricordava l’olio e il vino, doveva esse per forza un posto per fare roba buona.
Ma anche dallo zio il vino era buono…. fino a primavera inoltrata, poi cominciava a cambiare e bene che andasse cominciava a inasprirsi per virare prima o poi in aceto.

A proposito: mi ricordo un cugino della mamma, lo zio Fausto, che stava in un podere al Bottegone. Si volevano bene con la mia famiglia e quando veniva a Braccagni ci portava sempre un bottiglione da un litro e mezzo di vino rosso. Si vedeva che ce lo dava con orgoglio e diceva che l’aveva fatto lui con le sue mani. Aveva anche un bel colore. Ma come lo mettevi nel bicchiere e poi in bocca, erano dolori.  Il suo vino era già asprigno a novembre, a gennaio c’aveva lo spunto, da marzo in poi ci si condiva direttamente l’insalata. E loro lo bevevano tutti i giorni!

Per dire che quando uno ha fatto la bocca ad una cosa: gli cambia in cantina il vino che sta bevendo tutti i giorni e difficilmente se ne accorge. Succede anche oggi.

Segue…

Roberto Tonini

Nato nella Maremma più profonda, diciamo pure in mezzo al padule ancora da bonificare, in una comunità ricca di personaggi, animali, erbe, fiori e frutti, vivendo come un piccolo animale, ho avuto però la fortuna di sviluppare più di altri olfatto e gusto. La curiosità che fortunatamente non mi ha mai abbandonato ha fatto il resto. Scoperti olio e vino in tenera età sono diventati i miei migliori compagni della vita. Anche il lavoro mi ha fatto incrociare quello che si può mangiare e bere. Scopro che mi piace raccontare le mie cose, così come a mio nonno. Carlo mi ha invitato a scrivere qualche ricordo che avesse a che fare con il mangiare ed il bere. Così sono entrato in questa fantastica brigata di persone che lo fanno con mestiere, infinita passione e ottimi risultati. 


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0 responses to “L’uva e il vino in Maremma (a quei tempi)4 min read

  1. …..e questo e’ solo l’inizio!!!!!
    Piacevole come sempre e’ leggerti….incantevole il tuo modo sapiente di raccontare verita’ e passato.
    Grazie!

  2. E bravo “Granocchiaio”, scrivi cosଠbene che sembra di vedere un film, uno di quelli belli in “bianco e nero”, ma quelli belli senza effetti speciali che si vedevano da ragazzi. Hai una grandissima capacità  descrittiva e sai coinvolgere l’attenzione…..ma come fai?

  3. Ha ragione il Bechi,hai una capacità  descrittiva da grande scrittore.
    Complimenti. Saluti da motorino.

  4. complimenti Roberto, descrivi molto bene l’ambiente e le situazioni, la pimpa, che meraviglia me ne ero dimenticata. Il mi zio Pietro ce l’aveva proprio buona. Che bello avere dei ricordi d’infanzia legati ai sapori, i bambini di oggi specialmente quelli che vivono in città  che sapori potranno ricordare? I succhi di frutta che di frutta hanno solo il nome. Peccato

  5. Eh si, caro Granocchiaio, ha ragione chi mi ha preceduto nel commentare il tuo racconto, sei un raccontatore di storie che fa scorrere il passato davanti agli occhi mentre si leggono le tue parole.
    Rosetta Melani ha sentito il sapore della pimpa, anche io, proprio aspra e sciapa come la descrivi te, e mi ha riportato alla mente quando Angiolino del Cencini ci portava nella vigna del Bucalossi, d’agosto mentre si zappava la gramigna, il bottiglione di Pimpa fresca di frigorifero (lui abitava li vicino), era la cosa più buona da bere che ci fosse al mondo in quella vigna dove ballava la vecchia e la velligione si faceva sentire già  verso le 9 del mattino… quanti ricordi e quanti profumi… ora che hai iniziato però devi continuare … ciao
    pizzicato

  6. Caro Pizzicato,
    se anche non firmavi avrei capito subito che eri uno delle mi’ parti. Pero io pe’ scrive qua drento devo fa tre lavaggi e du risciacqui prima di esse pubblicato. Cosଠvogliono da ste parti. Ora te scrivi per benino, ma quando dici “in quella vigna dove ballava la vecchia” e poi che “la velligione si faceva sentire già  verso le 9 del mattino” io lo so cosa vogliono dire queste due espressioni. Ma siccome questo è un giornale che mi dicono letto in tutta Italia, sarebbe cosa buona e giusta tu spiegassi con parole dome il loro significato.
    Che tu sia benedetto te e chi t’ha battezzato “Pizzicato degli Acquisti”

  7. Stavo pensando se Roberto c’avrebbe o no dormito sopra prima di rinfacciarmi “i lavaggi” letterari a cui sottopongo i suoi bellissimi pezzi che profumano di ricordi. Non c’ha dormito ed in più l’ha detto in maniera perfida, rinfacciando ad altri quello che lui vorrebbe fortemente fare. Facendo finta di non aver capito niente (passare da bischero certe volte è meglio) chiedo anch’io al signor Pizzicato di spiegarci il significato arcano dei due termini citati da Roberto. Chiudo assicurandovi che, per il futuro, ci sono pronti altri quattro articoli quattro del nostro Braccagnese (si dice cosà¬?)

  8. Caro sig. Macchi….si dice Braccagnino.
    Bella come sempre la narrazione ed intelligente chi l’ha pubblicato.

  9. Come si fa a non rispondere a queste cose, lo faccio proprio volentieri anche perchè son cose che se non si tramandano si perdono con noi .
    La mi mamma el mi babbo mi insegnarono fin da piccino che vuol dire ‘veder ballar la vecchia’ anche perchè un bimbo deve saperlo per evitare spiacevoli inconvenienti.
    In fondo è una cosa che tutti conosciamo, avete presente il tremolio dell’ orizzonte quando lo si guarda con il sol leone in testa e durante le torride giornate d’estate? Ecco quel tremolio delle cose all’orizzonte veniva e viene detto ancora dalle persone di una certa età , in Maremma, ‘la vecchia che balla’ ….
    ma visto che siamo su un blog dove si parla di vino, non posso non citare che il ‘Balla la Vecchia’ è anche il nome di un vinello, non male pur se solo IGT, prodotto dall’azienda Agraria San Felo di Poggio la Mozza in mezzo alla Maremma Grossetana, bisognerebbe chiedere a loro se lo hanno chiamato cosଠper via degli effetti che ha sulle teste di chi lo beve un po’ più del giusto…

    Veniamo ora al termine ‘Velligione’…
    Questo stato del corpo e della mente si può anche collegare in certi casi alla vecchia che balla, infatti chi ha provato ad andare a lavoro in un campo dove balla la vecchia, ad una certa ora inizia a sentir la velligione venir su da dentro con forza… e se non si provvede… mangiando qualche cosa, ci si potrebbe anche ritrovar seduti a terra per la debolezza.
    La velligione è quel senso di nausea (il mi babbo diceva che gli si appiccicava lo stomaco) e testa vuota fino alle vertigini, che ti prende quando, sotto sforzo e in ambiente caldo, sotto il sole ad esempio e mentre fai un lavoro pesante, ti prende alla bocca dello stomaco e sale in testa. Per fermarla bisogna mettere qualche cosa sotto i denti, e siccome chi lavora nei campi la colazione la fa al mattino presto, verso le nove quando il sole inizia ad esser caldo, inevitabilmente ti senti mancare ed ecco che la velligione compare e se non ti fermi e mangi qualche cosa finisce male.
    Il fatto è che il qualche cosa da mangiare, era un rito, o meglio certi lo facevano diventare tale, la colazione nei campi era un momento particolare e chi c’è passato lo sa bene…

  10. Ringrazio Pizzicato degli acquisti per queste preziose informazioni che, al pari di quanto scrive Roberto, rendono la vita più piacevole.

  11. Ora che siamo abituati bene …… vorremmo leggere il seguito!!!!
    Ma e’ giusto cosi’ !!!!
    Le cose per goderle ed apprezzarle si devono assaporare un po’ alla volta!!!

  12. 6 un maremmanaccio di cuore, non hai rughe nella testa, 6 come le radici delle piante, prendi il buono dalla terra per dare forza al fusto, continui l’ opera di bonifica (della maremma), regalandoci spaccati di una terra, che produce personaggi sapori fotogrammi genuini, 6 un dop.

  13. Lo sapete perchè il Granocchiaio scrive cosଠbene ?
    Perchè è uno dei pochi che riesce a provare emozioni , che sa commuoversi , appassionarsi e soprattutto che avverte ancora meraviglia .
    Le avete viste le sue foto , quando coglie il particolare di un paesaggio che altrimenti passerebbe inosservato o sublima in uno scatto l’espressione di uno dei suoi bimbi ?

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