Lo strano vino di Jonathan Nossiter5 min read

Per qualche giorno il dibattito sul Web ha preso spunto da un articolo intitolato “ Attenti al vino” di Jonathan Nossiter – regista del documentario Mondovino (2004) –” pubblicato sul numero di Gennaio 2012 (n°148) della rivista GQ.

Il tema trattato dal regista, scrittore e sommelier di origine americana, è che “A Roma ( ma quasi ovunque in Italia) se entrate da sprovveduti in un ristorante – che sia un tempio dell’haute cuisine o una semplice trattoria – quasi certamente vi serviranno un vino dal sovraprezzo esorbitante, oppure tossico, o che tradisce la propria identità storica (se non tutti e tre insieme)”.

Intanto trovo singolare che il caporedattore della rivista patinata abbia fatto passare, senza colpo ferire, quella parola che Nossiter ha impiegato, intendendo chissà cosa.  Penso sia opportuno, in via preliminare, che qualcuno gli faccio omaggio di un vocabolario della lingua italiana. Recita infatti il Devoto-Oli che la parola “tossico” significa “provoca intossicazione, velenoso”.

E visto che il Nostro usa questa parola con una certa larghezza, è bene chiarire, anche perchè non credo che a Casale del Giglio, nota cantina del Lazio, abbiano preso molto bene la frase “ Un’azienda nella quale si usano sostanze chimiche-tossiche per qualsiasi cosa vivente”.

Diciamo che il Nostro fa un po’ di confusione oppure ha un debito di conoscenza da colmare al più presto: infatti è grave e calunnioso sostenere che nei ristoranti italiani si spacciano vini pericolosi per la salute umana. Se poi il rimedio sarebbero i cosiddetti vini naturali in contrapposizione ai “giganti” Frescobaldi, Antinori, Zonin e di altri imprenditori “proto-berlusconiani”, da Gaja in poi per intenderci, la questione diventa più complessa. Anche perché sempre secondo Nossiter i naturali avrebbero “letteralmente ridato vita al vino italiano”.

Sono opinioni rispettabili, certo, ma forse non abbiamo visto lo stesso film: la realtà italiana infatti è risorta, dopo lo scandalo del metanolo specialmente, per merito di tutto il settore vinicolo, grandi e piccoli produttori insieme. Se poi oggi i naturali sono una presenza trascurabile, seppur importante, figuriamoci a quell’epoca quando il termine nemmeno esisteva.  Quanto ai ristoratori di Roma e fuori, l’imputazione è di non essere curiosi perché non cercano i vini naturali – (ma è sicuro che non cerchino solo quelli?) –  e come se non bastasse sono pure esosi a causa dei ricarichi mostruosi solitamente praticati su tutti i vini.

Debbo dire che la questione del prezzo del vino al ristorante non si può prorio considerare come l’ultima novità in materia di dibattiti. Sono convinto di averla letta anche qualche altra volta. Comunque il contributo di Nossiter nell’annosa questione non sembra sia particolarmente originale rispetto a quanto è stato detto e scritto finora. Certo anche in questo caso riproporre come antidoto i vini naturali non mi sembra proprio geniale visto che molto spesso non solo puzzano e presentano svariati difetti ma sono pure assai carestosi (sono cari. n.d.r.). Insomma ci sono anche delle lodevolissime eccezioni ma non così numerose come si vuol far credere.

http://www.winesurf.it/admin/gest_news.php?file=form_news&form_id_notizia=1299
Intanto la lista dei cattivi si allunga e comprende oltre a quelli citati in precedenza, i vini di Zaccagnini, Cusumano, Tasca d’Almerita, Librandi e Santadi che vengono definiti “poco artigianali o (poco) autentici. Il peggio però tocca a Casale del Giglio, una famosa cantina del Lazio,  definita “ Un’azienda nella quale si usano sostanze chimiche-tossiche per qualsiasi cosa vivente ….”. Insomma invece di innocui trattamenti in quel di Aprilia si adombra l’uso dell’agente “orange”, quello impiegato dagli americani  in Vietnam o giù di lì.

Al magazine GQ sottotitolato con un significativo “per uomini che non conoscono la crisi”, (probabilmente uomini della mezza età, visto che per sostenere i loro argomenti hanno bisogna di una copertina davvero innovativa con un bella gnocca scollacciata, tale Madalina Ghenea, che ti guata sorniona) vorrei fare una modesta proposta. Perché non inaugurate una rubrica intitolata “Quelli che le sparano grosse”? Forse un po’ di leggerezza rende la vita e il vino, un po’ migliori e più naturali.

 


La produzione bio, Italia leader in Europa
In Italia, il vigneto bio gode di ampio credito tanto che nel 2001 aveva toccato il tetto di 44.000 ettari complessivi poi con la fine dei contributi previsti nei Piani di Sviluppo Rurale, la superficie è andata calando sino ai livelli attuali. Nel 2008 con 34.000 ettari l’Italia era il paese leader sia in Europa che nel mondo, la Francia con 19.000 ettari si deve accontentare del secondo posto, la Spagna con 16.000 ettari del terzo mentre a lunga distanza, al quarto posto, c’è la Germania con 2.800 ettari. (Fonte XVI Congresso Ifoam 2008). Secondo i dati più aggiornati del Sinab (Sistema informativo nazionale sull’agricoltura biologica) in Italia tra superfici già convertite e quelle in conversione, il biologico in Italia rappresentava nel 2009 poco più del 6% del totale vitato, pari a oltre 43.600 ettari, quindi è molto cresciuto. Le più coinvolte sono le regioni centro-meridionali, mentre tra le regioni grandi produttrici di vini solo la Toscana è interessata con una percentuale rilevante, pari al 10%. Sempre in Italia si stima che il vigneto biodinamico occupi circa 750 ettari (Fonte prof. Antonella Vastola – Relazione Congresso OIV di Verona). Anche questo dato dovrebbe per lo meno far riflettere su quanto questa realtà sia piccola e allo stesso tempo quanto sia sopravvalutata. Ma ciò per molti non è affatto un ostacolo perché quasi sempre conta di più la percezione di un fenomeno che non i numeri reali che esso esprime.


 

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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  1. Ho visto e rivisto in questi anni il documentario Mondo Vino di J. Rossiter, lo condivido e lo trovo più che mai attuale. Naturalmente le affermazioni riportate nell’articolo in oggetto sono eccessive ed anche scorrete, a meno che lui abbia prove a conferma delle cose che dice. Certo è che oggi in Italia, in generale, nelle produzioni vinicole, si continua a privilegiare sempre più la tecnologia e l’identità  dell’enologo a scapito dell’identità  dell’uva e del vitigno e del territorio che la produce, per cui abbiamo sempre più vini, magari tecnologicamente perfetti, ma sempre meno identificabili se non dall’etichetta, non solo, assistiamo all’internazionalizzazione dei nostri vitigni autoctoni, con la giustificazione che ogni enologo interpreta il vino come crede(alla faccia del rispetto dell’identità ) e costruisce il vino secondo un progetto costruito a tavolino, e per la realizzazione di quel progetto, sacrifica ogni cosa, salvo il suo IO. Da queste cose deriva anche un deprezzamento dei nostri vini in campo commerciale internazionale (fate salve le icone enologiche, sempre uguali a se stesse ieratiche e monumentali) , le statistiche ci raccontano di aumento di vendite in volume e diminuzione in valore, di questo stato di cose ne risentono soprattutto le aziende più piccole e più deboli economicamente, tant’è che in italia abbiamo assistito e stiamo assistendo ad una progressiva diminuzione del numero delle aziende vitivinicole, purtroppo sono quelle aziende che producevano nel rispetto del profilo sensoriale delle uve, ma che sono state stritolate dalle difficoltà  del mercato in quanto, sprovviste di adeguati capitali.

  2. Sono d’accordo con lei dot. Macchi, e a dir il vero mi sento offesa da questo sport internazionale del momento che consiste nel denigrare l’Italia e tutto ciò che è Italiano.Credo che ci siano i termini per una denuncia per diffamazione nonchè per danni d’immagine, da parte della cantina vittima di questo ignobile attacco.Se il signor Nossiter, ha la prova delle sue affermazioni esistono i luoghi deputati per agire a salvaguardia della salute dei consumatori. E’ inaccettabile che si usi la stampa , mi meraviglia che una tale rivista faccia del terrorismo,per saldare i conti personali celandosi dietro ad un dito. Basta è ora che ci sia più umiltà  e coscienza quando si parla del lavoro degli uomini, non dimentichiamoci che dietro una bottiglia c’è un uomo, anzi degli uomini che lavorano per riempirla.

  3. “Il valore export del vino raggiunge a settembre 2011 i 388 milioni di €, contro i 342 del 2010; i volumi rimangono sostanzialmente invariati intorno a 2,0 milioni di ettolitri. I valori medi unitari mostrano un’ inversione di tendenza lievitando da € 1,68 a € 1,88/litro, +11,9%. Sul versante delle importazioni si nota un repentino incremento nei valori da 149 a 187 milioni di € + 25,1%; mentre il saldo della bilancia vinicola tocca 2,9 miliardi €, nei primi nove mesi dell’anno”. Fonte Assoenologi sugli ultimi dati dell’export italiano
    Certo si può fare meglio ma bisogna fare i conti con quello che è successo negli ultimi anni. Per cui la situazione non mi sembra cosଠbrutta tenendo conto della situazione generale. A questi risultati contribuiscono tutti, grandi e piccoli, secondo le proprie possibilità . I piccoli, proprio perché sono piccoli, non hanno né i mezzi, né la struttura, né la massa critica per poter aggredire il mercato estero. Se però c’è una grande cantina che apre la strada e fa conoscere il vino italiano laddove è ancora poco conosciuto ci guadagnano tutti anche i piccoli. Il fatto – spesso duro da digerire – è che i piccoli si devono mettere insieme per poter andare all’estero cosଠcome succede ai grandi. Una volta tanto ci sono i soldi (fondi OCM Vino) per poter fare questo percorso. Il mercato è grande e ci sono prodotti per tutte le tasche e per tutti i gusti. Continuare a parlare di internazionalizzazione dei vitigni autoctoni (?), di enologi che stravolgerebbero i vini e cosଠvia, vuol dire scappare dalla realtà . Le persone come Nossiter con il vino non ci debbono campare… tutt’al più lo possono bere… Avere un vino senza difetti è una conquista. Ci sono voluti molti anni per arrivare a questo risultato. Ritornare indietro con la scusa della naturalità  non mi sembra un grande passo in avanti…
    P.S. In Mondovino si riesce a nominare Antinori come un globalizzatore mentre non c’è una parola su Jacob’s Creek cosଠcome sugli australiani in generale. Abbiamo scherzato, vero ?

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