L’insostenibile non leggerezza delle mode nel mondo del vino6 min read

All’inizio fu il Capsula Viola, sublimazione della moda del Galestro che imperò tra la fine degli anni ‘70 e i primi anni ’80. E’ di qualche anno dopo l’inarrestabile ascesa del Gavi e di un vino toscano che fece scuola, il Terre di Tufi.

Ancora il mondo del vino non era nemmeno lontanamente quello di oggi e le mode rispondevano semplicemente a metodi diversi per risolvere vecchi problemi. In Chianti c’era una marea di trebbiano e malvasia? Fermentiamolo in maniera diversa, togliamogli tutti i difetti che allora quei bianchi avevano ed ecco nascere un vino nuovo, giovane, facile da bere e da capire. La stessa cosa praticamente fece Enrico Teruzzi quando si trovò di fronte alla Vernaccia di San Gimignano, che agli inizi degli anni ’70 diventava “orange wine” ancor prima dell’estate successiva.

Il Gavi (anzi il Gavi di Gavi, marchio registrato) forse è stato, nei primi anni ’80,  il primo vero vino modaiolo del quasi moderno mondo del vino, anche se portava con sé la stessa caratteristica di “spazzino dei difetti” del passato.

Da allora se si volessero contare “le mode” nel mondo del vino (quello del cosiddetto vino di qualità naturalmente, cioè la punta dell’iceberg del vino mondiale) ci vorrebbe un grandissimo pallottoliere, ma fondamentalmente fino a pochi anni fa il processo era il seguente.

  • Voglia, magari da parte di giovani o di nuovi produttori della zona, di fare un vino diverso
  • Cambiamento veloce delle tecniche di vinificazione (e solo dopo o molto dopo in vigna) per farlo
  • Sorpresa e maggior interesse degli appassionati, abituati a vini con altre caratteristiche, spesso di livello inferiore
  • Passaparola, mediato anche dalla stampa, di settore o meno.
  • Moda, con affiancata crescita della produzione
  • Fine della moda con un territorio che si domanda cosa fare da grande.

Quindi una moda nel mondo del vino, nasceva sempre da una “rivoluzione” per arrivare poi non a una “restaurazione” ma ad una crescita e successivamente ad un normale impatto con il mercato e con le nuove “rivoluzioni” nate nel frattempo. Certo, alcune rivoluzioni oggi fanno sorridere, ma quando sono esplose ci sentivamo tutti accaniti barricaderi: basti pensare alla diatriba tra Innovatori e Tradizionalisti in Langa o all’esplosione dei Supertuscan con annessi merlot e cabernet sauvignon. Entrambi questi importanti momenti avevano un punto di contatto, la barrique: per anni abbiamo scambiato uno strumento di cantina per la chiave di accesso ad un grande vino.

Per fortuna le cose sono cambiate, ma non è detto in meglio. C’è comunque una riflessione che mi sento di mettere sotto gli occhi di tutti e cioè che oggi le mode sono fondamentali per vendere vino. Attenzione, non dico per farlo crescere ma per venderlo, specie in un mondo dove entrano sempre più grossi capitali.

A questo punto mi piace citare Ampelio Bucci quando dice che i suoi vini e la sua cantina non sono alla moda, perché hanno uno stile.

Ampelio Bucci

Creare uno stile, cioè qualcosa di riconoscibile anno dopo anno e di alto livello qualitativo è l’opposto di una moda, dove si beve senza riflettere, solo perché lo fanno altri e per questo si può “cambiare cavallo” senza colpo ferire, se non chi quel vino lo produce.

In un mondo piccolo come quello del vino (specie italiano) creare una moda credo sia abbastanza facile e relativamente costoso, ma poi cavalcarla, trasformarla e renderla uno stile è sicuramente molto difficile e ha bisogno di tempo, tanto denaro e tanta applicazione.

All’inizio ogni moda genera un veloce e remunerativo “momento positivo,” che dovrebbe servire anche per riflettere sul futuro e invece è utilizzato (forse logicamente) solo per fare cassa. Mi viene in mente una frase che mi insegnarono nel mio precedente lavoro “Un mercato in salita verrà visto (sbagliando) sempre in salita da chi c’è dentro, un mercato in discesa sarà sempre visto (sbagliando) in discesa per chi c’è coinvolto!” Forse non esiste frase migliore per rappresentare un vino di moda o passato di moda.

Vorrei aggiungere un importante corollario a quanto detto sopra: se spesso un vino/territorio di moda non è detto che  presenti sempre prodotti di alto profilo, una volta passato di moda e passato pure qualche anno, è quasi certo che lì si troveranno ottimi vini a prezzi buoni, perché i produttori nel frattempo si saranno attrezzati, in maniera molto più organica, per tornare in alto.

Ci sono Vini/ territori  che sembrano refrattari alle mode e ai suoi contraccolpi, ma che proprio per questo hanno avuto una crescita omogenea e costante. Faccio tre/quattro esempi con grandi diversità ma potrei farne di più: il Brunello di Montalcino, il Verdicchio dei Castelli di Jesi, Il Fiano di Avellino (con il Greco di Tufo accanto). Tutti vini conosciuti dagli appassionati sia italiani che esteri, ma che sono cresciuti qualitativamente con costanza mentre venivano scoperti mediaticamente, senza per questo che esplodesse una moda. Forse il più refrattario di tutti alla moda è il Verdicchio dei Castelli di Jesi, sicuramente uno dei tre migliori bianchi italiani autoctoni e sicuramente il migliore per rapporto qualità/prezzo. Probabilmente questo è il più grande vino antimodaiolo d’Italia.

Zona del Verdicchio di Jesi, panorama

Uno dei problemi dei territori con vini di moda è che spesso aumentano gli ettari in maniera sconsiderata, magari grazie a nuovi capitali arrivati da fuori, che scambiano la viticoltura per un mercato azionario dove si può entrare o uscire in un amen.

E’ successo quasi in ogni zona divenuta e poi passata di moda e oggi mi pare che lo si stia vedendo sull’Etna. e spero che il futuro di questo meraviglioso territorio sia diverso da quello di altri e abbia negli anni a venire andamenti e riflussi meno marcati verso il basso e meno altalenanti.

Comunque ribadisco che per me le mode servono al mercato, rilanciano avanti l’interesse per il prodotto vino in genere, creano curiosità, aspettativa, creano anche e soprattutto il mercato stesso ma portano a logici scompensi quando tramontano. Forse alla fine dei salmi, parafrasando Brecht, potremmo dire “Beato quel popolo che non ha bisogno di mode.”  

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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