Le lingue le preferisco… salmistrate5 min read

A scuola non sono mai stato un fenomeno, mi sono limitato a cavarmela alla meglio. “Te organizzati come vuoi: vai a scuola quando vuoi, studia come e con chi ti pare, ma te a giugno passi, se no vai dritto a lavoro”. Questa era la direttiva che mi aveva concesso il  babbo. Generosa ma tremenda perché sapevo che al minimo inciampo ero fritto. O quasi.

Uno dei più bei complimenti ricevuti a scuola me lo fece il professor Athos Michelacci che un giorno dopo un’ interrogazione e la visione del mio quaderno degli appunti mi disse assai meravigliato: “Tonini, con te mi sono proprio sbagliato, avevo pensato che tu avessi resistito più sott’acqua che a studiare!”

Un complimento così da uno che aveva studiato sotto Edoardo Amaldi (uno dei cinque "ragazzi di via Panisperna"), si chiamava Athos e fumava le Roxy non era cosa da poco. Ma era l’insegnante di matematica, fisica, chimica e merceologia, materie che amavo veramente. Per di più era pure simpatico.

Nelle letterarie andavo così e così. A italiano presi una volta un bel voto, sette mi pare, perché avevo chiesto alla professoressa: “Scusi eh, ma in fondo a noi che ci serve la letteratura?”. Lei mi rispose: “intanto ti do 7 per la domanda e poi ti rispondo”. 

Con l’inglese me la cavavo benino perché sfruttavo i testi delle canzoni che nel frattempo strimpellavo con un gruppo di amici “I Maya”, primo “complessino” di tutta la provincia di Grosseto con due chitarre elettriche in formazione; chitarra basso e batteria sulla scia dei mitici Shadows, Beatles e compagnia. Ad ogni parola usata in classe mi veniva di rammentare una frase di un testo di canzone. Quella più usata, non so perché, era: “By the Light of the Silvery Moon” un incantevole pezzo di Fats Waller del 1942, rilanciato poi con un nuovo ritmo dallo scatenato Little Richard nei primi anni 60.

Questo abbinamento inglese – testo di canzoni mi aiutò in maniera incredibile all’esame per il diploma. Come un vero disgraziato avevo veleggiato per tutto l’anno scolastico dell’esame di stato sul 3 all’orale perché non ero mai andato alle interrogazioni e per l’ammissione volevo strappare almeno un 4 per tentare di raddrizzare la situazione. Chiesi nell’ultimo giorno di scuola al prof. Traverso di interrogarmi e lui mi rispose. “lo fai per avere un 4? Te lo regalo io, ma non ti voglio dare la soddisfazione di pronunciare una sola parola in inglese davanti a me!”.

In occasione degli esami andavo sempre prima a studiare i professori: che tipi erano, cosa chiedevano, come si comportavano, e altri dettagli che potevano suggerirmi come comportarmi a mia volta. Fortuna volle di avere in commissione un  giovane professore con il quale al minimo accenno di Beatles e Rolling Stones.. e poi che facevo parte di un complessino… praticamente parlammo per tutto l’esame solo di musica e canzoni. Risultato promosso con 7 a inglese con scandalo dell’affranto professor Traverso.

Per lo scritto non avevo avuto problemi grazie al mio vocabolario che avevo fatto rilegare in tipografia incorporando un serie di lettere commerciali che mi limitai solo a copiare pari pari per l’esame. Risultato non ci misero la penna per correggere: avevo copiato tutto  senza fare errori.

Caracollavo in francese dove riuscivo a digerire un po’ con la canzoncina:

“Alouette, gentille Alouette
Alouette je te plumerai
Alouette, gentille Alouette
Alouette je te plumerai
Je te plumerai la tete..

Forse pensando ad un magnifico spiedo che allora già preparavo alla domenica per tutta la famiglia. Mi piaceva esclamare “Garcon!” che all’epoca era usato per chiamare il cameriere al ristorante.

Poi per i casi strani della vita mi ritrovai a dover adoperare proprio questa lingua per il lavoro. Fabbricavo e vendevo macchine in specie per la Francia e negli anni ’70 andavo regolarmente a Parigi, almeno una settimana al mese. Non c’è miglior sistema per imparare la lingua che essere sul posto ed averne bisogno. Aiutato dal nostro agente che aveva la mia stessa età raggiunsi un livello sufficiente per trattare affari, andare nei ristoranti e a muovermi da solo per tutta la città. Ad ogni viaggio mi ritagliavo qualche mezza giornata per visitare la città e devo dire che ho continuato a farlo sistematicamente e senza fretta per tutto quel decennio con risultati davvero piacevoli.

Ovviamente gli amici sapendo che andavo a Parigi non facevamo che dirmi: “Bella vita la tua eh? A lavoro a Parigi! Non sari mica sacrificato? Ma la sera ci vai al Moulin  Rouge, al Crazy Horse, a vede’ gli spogliarelli?”

Mai che uno mi chiedesse se ero stato al Louvre, o all’Arco di Trionfo, agli Invalides, a qualche mostra al Petit Palais (c’ho imbiffato una stupenda esposizione dei macchiaioli dove m’innamorai dell’originale del quadro “La Curiosa” di Silvestro Lega raffigurante una ragazza che sbircia da dietro una persiana), o un qualsiasi altro museo o monumento di Parigi.

Al Museo Grévin, (museo delle cere) non mi stupii più di tanto di fronte a un De Gaulle alto oltre il metro e novanta, mentre John Mcenroe lo facevo più basso del suo quasi 1,80, ma il massimo fu quando guardai nei suoi occhi di ghiaccio Charles Bronson alto (?) come me allora, e cioè 1,72. Un amico, evidentemente con interessi per la cultura mi chiese com’era il palazzo della Bastiglia. Rimase deluso quando gli spiegai che c’era la piazza della Bastiglia, ma che purtroppo da ormai molto tempo la Bastiglia era stata assalita e distrutta da dei rivoltosi.

Segue…

Roberto Tonini

Nato nella Maremma più profonda, diciamo pure in mezzo al padule ancora da bonificare, in una comunità ricca di personaggi, animali, erbe, fiori e frutti, vivendo come un piccolo animale, ho avuto però la fortuna di sviluppare più di altri olfatto e gusto. La curiosità che fortunatamente non mi ha mai abbandonato ha fatto il resto. Scoperti olio e vino in tenera età sono diventati i miei migliori compagni della vita. Anche il lavoro mi ha fatto incrociare quello che si può mangiare e bere. Scopro che mi piace raccontare le mie cose, così come a mio nonno. Carlo mi ha invitato a scrivere qualche ricordo che avesse a che fare con il mangiare ed il bere. Così sono entrato in questa fantastica brigata di persone che lo fanno con mestiere, infinita passione e ottimi risultati. 


ARGOMENTI PRINCIPALI



0 responses to “Le lingue le preferisco… salmistrate5 min read

  1. Adoro anch’io il quadro di Silvestro Lega: uno spiraglio di luce e il desiderio di guardare oltre per scoprire, magari, pensieri segreti. ” Per osservare il mondo e coglierne  sfumature, per afferrare ciò che sfugge,  per imparare a gioire e per non rassegnarsi.”
    I colori usati, cupi ma luminosi, ci aiutano a provare queste piacevoli sensazioni!!!
    Vedere un’opera dal vivo ti regala emozioni incredibili a volte persino brividi e uno strano calore e gioia nel cuore allo stesso tempo! 

  2. Dopo gli Shadows e l’ invenzione del complessino tutto chitarre arrivarono i Beatles e tutta l’ ondata del beat anglo-americano. Io facevo parte di un complessino beat e vuoi un po’ per la moda dilagante, in po’ perché veramente forti, i brani che eseguivamo erano quasi tutti in inglese. Purtroppo i testi inglesi delle canzoni che suonavamo cercavamo di tirarli giù dai dischi, perché non c’ erano certo i mezzi di oggi e non potevamo fare di meglio: risultato, il 90% delle parole erano in inglese maccheronico -tipo “prisencaulinensis” del Celentano- e quindi non poteva servirci ad imparare molto! Però alla fine il suono delle parole cantate era quasi quello giusto e la cosa funzionava … anche se non capivamo mezza parola di quello che stavamo cantando.

  3. Ogni anno a Modigliana, città  natale di Silvestro Lega si tiene ” Tableaux Vivant”. Volontari del luogo danno vita ai quadri del pittore, nelle vie e piazze del paese. Più o meno a meta’ settembre.

  4. Incasso con piacere le note della Capinera e di Giovanni: è assai gratificante condividere qualcosa di cosଠbello!

    Riprendo volentieri la notazione del “Fla” riguardo all’uso dell’inglese nei testi delle canzoni. Tutto vero, tutto esatto quello che dice. Per noi quel linguaggio era come un altro strumento musicale con propri e più o meno riconoscibili suoni. Il significato si poteva avere se tutto andava bene solo per il titolo: Jailhouse Rock, Johnny B. Goode, Lucille, Smoke Gets in Your Eyes, Diana, Only you, Oh! Carol, Runaway, She Loves You, (I Can’t Get No) Satisfaction”¦”¦che potevano forse farci pensare – grosso modo – di cosa si parlasse nella canzone. Ma il testo no, le parole erano solo suoni. E nessuna lingua è più musicale dell’inglese. Almeno per questo scopo.

    A me, per esempio, è rimasto sempre piuttosto lontano Bob Dylan dai testi meravigliosi (dice) ma che musicalmente mi ha sempre detto abbastanza poco. Certo mi piaceva di più Joan Baez, ma solo per la sua voce e il suo modo di cantare. Non certo per i testi che non comprendevo. E a poco servivano i testi tradotti perché perdevano tutto il fascino dell’originale.

    Il suo complessino beat del “Fla” nacque da due costole del mio, si chiamavano “I selvaggi”, facevano molto Beatles e Rolling Stones mentre noi facevamo quasi esclusivamente The Shadows. Lui era la chitarra solista e una delle due voci. Erano forse più bravi di noi, ma noi siamo stati i primi! E poi la loro sigla ”“ che lui eseguiva magnificamente ”“ era proprio un pezzo degli Shadows, The Savage, appunto.

  5. Se si devono citare le migliori lyrics in inglese, per me rimangono nell’Olimpo quelle di Leonard Cohen, più poesie cantate che vere e proprie canzoni. Poi i testi di Patti Smith, Carole King e qualcosa di quella smandrappata di Janis Joplin. E il concept album di Jackson Browne, Running on Empty. Roba della nostra generazione, praticamente decomposta.

LEGGI ANCHE