Lambrusco: dalla Via Emilia al (mio) test!2 min read

Sul Lambrusco ho le idee piuttosto chiare e a chi mi vuol convincere che é un vino difficile da capire e apprezzare  faccio rispettosamente notare, con il pugno alzato a martello, che sta parlando del vino più venduto al mondo.

Il Lambrusco è quel vino che regala soddisfazioni anche a chi, come il sottoscritto, non l’ha mai apprezzato più di tanto, per il semplice fatto che in Romagna, il luogo che ho scelto per viverci, non è così facile berlo. Una volta che un comune mortale ha assaggiato un Lambrusco, sarà in grado di riconoscerlo per tutta la vita, anche senza fare corsi AIS o di degustazione. Se questo non è “terroir” ditemi voi cos’è, allora.

Diffuso lo è senz’altro, almeno nella GDO, luogo che frequento solo in quelle domeniche pomeriggio dove posso trovare riparo dal caldo e dal freddo eccesivi, proprio come fu consigliato a suo tempo dal nostro Presidente del Consiglio.

Nei ristoranti e nelle trattorie, dove vive ben pasciuta l’esterofilia, di Lambruschi se ne vedono pochi. E quindi non ho mai avuto occasione di stimolare una eventuale latente passione. Cosa che invece mi è accaduta in questa degustazione presso ’Enoteca Regionale di Dozza che qui ringrazio, assieme ai produttori che hanno mostrato coraggio nell’affidarci, per la prima volta, i loro vini da sottoporre alla nostra valutazione (vedi).

 

Sarebbe facile uscirne con la frase ad effetto “ Il Lambrusco o lo ami o lo odi”, ma siccome ritengo di essere la dimostrazione vivente che esiste una via mediana, vi rinuncio in favore di un più veritiero “Alcuni Lambruschi mi piacciono, altri no!” E molto è in ragione di quale piatto stai sognando mentre lo sorseggi. Mi è capitato di sognare a occhi aperti una bella e grossa grassa fetta di mortadella, mentre la rossa spuma si formava nel bicchiere appena colmato. Ma tant’è.

Tirando un po’ alla volata finale, mi sento di riassumere alcuni pensieri sparsi. Non me ne vogliano i reggiani, ma ho trovato più l’anima, come me la immagino io, del lambrusco nei modenesi. E non me no vogliano quelli di Sorbara ma, all’esuberante spinta olfattivo-aromatica e alla effervescente vitalità che sprigionano, gli preferisco la maggior sostanza e polposità dei Grasparossa. Di certo vi è un fatto ed è che dopo una lunga serie di assaggi, una sessantina circa, avevo il palato ancora integro e non ho avuto ripercussioni di alcun genere. Un indiscutibile segnale di leggerezza e bevibilità, la qual cosa si richiede per l’appunto a questa tipologia.

Ma è solo la mia opinione, quella di un abitante della terra di confine che ha appena imboccato la Via Emilia.  

Giovanni Solaroli

Ho iniziato ad interessarmi di vino 4 eoni fa, più per spirito di ribellione che per autentico interesse. A quei tempi, come in tutte le famiglie proletarie, anche nella nostra tavola non mancava mai il bottiglione di vino. Con il medesimo contenuto, poi ci si condiva anche l’onnipresente insalata. Ho dunque vissuto la stagione dello “spunto acetico” che in casa si spacciava per robustezza di carattere. Un ventennio fa decisi di dotarmi di una base più solida su cui appoggiare le future conoscenze, e iniziai il percorso AIS alla cui ultima tappa, quella di relatore, sono arrivato recentemente. Qualche annetto addietro ho incontrato il gruppo di Winesurf, oggi amici irrinunciabili. Ma ho anche dei “tituli”: giornalista, componente delle commissioni per la doc e docg, referente per la Guida VITAE, molto utili per i biglietti da visita. Beh, più o meno ho detto tutto e se ho dimenticato qualcosa è certamente l’effetto del vino.


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