La Schiava: vino del passato o vino del futuro?3 min read

L’ho domandato più volte a molti produttori altoatesini: “Ma perchè quando andate fuori dell’ Alto Adige a promuovere i vostri vini non portate mai la Schiava?” E tutti giù a dire che non è vero: ma che comunque siamo di fronte ad un vino difficile….. che ha bisogno di appassionati….. etc”. In altre parole parafrasando De Filippo “E’ vero ma non ci credo!”.
Questo atteggiamento dipende da vari fattori, derivanti da un dato storico. Fino a pochi anni fa l’Alto Adige era praticamente un’unica distesa di Schiava che, piantata male e coltivata peggio, portava a vini scarichi in tutto, diluiti, quasi imbevibili. Vini da battaglia che hanno lasciato il segno nel mercato, nei consumatori ed anche nella mente dei produttori. Tanto per darvi un dato: nel 1984 c’erano quasi 3500 ettari di schiava su un totale di 5.432. Quasi il 65% della superficie vitata era coperta da questo vitigno!!!. Oggi siamo arrivati a meno di 1500 su un totale che si aggira sempre intorno ai 5000 ettari. La superficie a schiava è quindi diminuita in 20 anni di quasi il 60% e sembra che la discesa non si fermi. Grazie all’affermarsi prima dei bianchi e poi dei vari Cabernet, Merlot, Pinot Nero e Lagrein i produttori non hanno fatto altro che togliere schiava e piantare vitigni più remunerativi e meno “imbarazzanti” dal punto di vista qualitativo.
Parrebbe quindi che sia solo una questione di tempo, ma la Schiava andrà a scomparire. Accanto però alla sua drastica diminuzione si è anche iniziato a vinificarla meglio, con rese molto più basse e con attenzioni colturali più adatte a vini di qualità. Questo ha portato alla probabile nascita di quello che io definisco “il vino del futuro”! Cosa chiede infatti oggi il mercato? Cosa si vorrebbe/potrebbe bere in pranzi sempre più veloci, magari in piedi, fatti di tramezzini e mozzarelle? Un vino giovane (quasi sempre rosso) profumato, non molto alcolico, leggero ma non povero! In altre parole: una Schiava. Si chiami essa Santa Maddalena o Lago di Caldaro o semplicemente Schiava il risultato non cambia. In Alto Adige hanno per le mani il vitigno che potrebbe mettere d’accordo i palati di mezza Italia e lo tengono nascosto, si vergognano a farlo assaggiare più a sud di Trento. Potrà sembrare assurdo ma sono d’accordo con alcuni produttori avveduti quando dicono che, per divenire quello che io ipotizzo, la schiava deve perdere ancora 500-600 ettari, che servono oggi per la marea di bottiglioni che imperversano in Alto Adige. I mille ettari rimanenti potrebbero divenire lo zoccolo duro per “il rosato più profumato d’Italia”. Ehhh si! Perchè, visti i colori che devono avere (grazie anche a noi giornalisti…..) i rossi oggi, presentare la Schiava in questo campo vuol dire perdere senza nemmeno giocare. Presentarlo invece come un rosato (capisco che dal punto di vista enologico non è così ma bisognerebbe fare di necessità virtù) anzi come un “Rosato all’occhio ma rosso nel cuore” potrebbe essere la carta vincente.
Quest’anno ne abbiamo assaggiati molti di questi “rosati” e le valutazioni le potrete vedere nella sezione degustazioni. In generale l’annata 2005 non è stata eccezionale per il vitigno: il rischio diluizione era presente, come quello di uve colpite da muffe non certo nobili. I risultati sono discreti, con un buon numero di vini profumati, fini e piacevoli che fino a pochi anni fa si potevano solo immaginare. Non siamo ancora al “vino del futuro” ma sicuramente “il vino del passato” può essere considerato morto e sepolto.

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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