La luce oltre il Gottardo.5 min read

Il nostro Francesco Annibali, se potesse, rinascerebbe alsaziano. Questa è la cronaca, a puntate, dell’ultimo e recente viaggio nella sua personale Mecca del vino.

 

Era il Riesling 1983 di Trimbach. Il base, quello con l’etichetta bianca. Quello che a Colmar lo trovi pure al supermercato. Fu tutta colpa sua. Ero seduto ai tavoli dell’azienda, a Ribeauvillé, primavera 1999. Era una bella giornata fuori, limpida e freddina. Io ero lì in gita sociale con l’AIS Marche. Una bella gita, organizzata coi fiocchi da Claudio Giacomini della delegazione di Ascoli Piceno. Io ero lì, insomma, al tavolo, e il primo vino che portarono era questo Riesling 1983. Una bomba di sale mi esplose ai lati della bocca.

25 febbraio 2009

L’uscita Colmar Nord – Ingersheim arriva come sempre un po’ prima di quanto ti aspetti. Sì, l’Alsazia ha, tra i mille pregi, quello di essere vicina. Oddio, diciamo quantomeno più vicina del previsto. Per un milanese sono manco 5 ore. Gottardo permettendo, intendiamoci. Ingersheim è un sobborgo di Colmar, porta ideale di accesso al cuore vinicolo della regione. Sono le 12:40, alle 14:00 ci aspetta Zind Humbrecht. Andiamo dritti alla Taverne Alsacienne. Locale stracolmo, a pranzo bastano 20 euro. E ti portano le pietanze – perfette – sotto il coperchio per tenerle al caldo. Da noi spesso non basta una stella Michelin per avere tale servizio. Io, Alessandro e Maurizio ci tuffiamo su un Riesling 2004 di Josmeyer. La nota metallica e fruttata di pesca emerge chiara. In bocca è morbidamente secco, la pesca diventa un tappeto di fiori, e il metallo diventa sale. L’evidente tenerezza rende la beva irrefrenabile. Sembra quasi ti sorrida. Eccellente sul trancio di trota, e su tutto il resto. I miei compagni di viaggio restano quasi interdetti. “Niente male come apertura, che dite? E questo è solo l’inizio”.

La forza che nasce dal vigneto

Ingersheim e Turckheim sono talmente vicine che quasi non si riesce a ingranare la terza. Per l’appuntamento da Zind Humbrecht arriviamo puntuali come un treno giapponese. Alle 13:57 oltrepassiamo il cancello di quello che dall’esterno sembra poco più di un anonimo capannone. Olivier Humbrecht, figlio prodigio di Leonard, che ha portato il domaine allo splendore planetario, si trova, come sapevamo già, negli Stati Uniti. Appena vediamo la signora Humbrecht, sua madre, una piccola delusione si affaccia timida in noi. La signora è estremamente gentile, e di splendida presenza, ma ci sorge il dubbio di essere stati un poco snobbati. Per capire che siamo in errore ci basta un minuto: la signora denota una cultura del vino da far rabbia ad un enologo consulente.

“Noi facciamo parte di quel 20% di produttori, ed è per questo che ci possiamo fregiare del termine domaine”, esordisce. “Il restante 80% della produzione regionale è in mano per metà alle cooperative, e per l’altra metà ai negociants”. “Facciamo vini solo con uve di proprietà, insomma”. Alessandro e Maurizio partono con le domande. “Da quanto tempo è che praticate la biodinamica?”, “dal 1995. La scelta non è stata presa per ragioni qualitative, la qualità c’era già. Si trattò di una decisione ispirata da ragioni di salute nostra e del terreno. Ma sia chiaro che non vogliamo dire che fare biodinamica significhi fare tradizione. La biodinamica non ha nulla a che fare con la tradizione, è una pratica innovativa. Il punto davvero fondamentale è avere lieviti per ciascuna vigna. Una volta portata l’uva migliore in cantina, la pressiamo con i raspi, molto a lungo, per ottenere una pressatura la più soffice possibile. Le presse che utilizziamo sono state create da un produttore di succo di mele, attentissimo ad evitare ossidazioni. Dopo di che facciamo una normalissima vinificazione in bianco. Non amiamo l’acido malico. Per questo raccogliamo l’uva il più tardi possibile.” Non riusciamo nemmeno a formulare l’obiezione sul residuo zuccherino di certi vini, che la signora prosegue: “il mosto viene decantato in tini obliqui, per depositare le fecce, poi effettuiamo la fermentazione in vecchie botti di legno, che all’interno sono attraversate da barre di acciaio inox percorse da acqua fredda”. Tutto qui, almeno si fa per dire. Già, visto che i vini del 2007 cantano, e intonano una forza naturalissima. Più barocchi che gotici, ma più secchi di quelli di poche annate fa, sono irrefrenabilmente espressivi, e lasciano sbalorditi. Il frutto di Gewurztraminer Goldert, la spaventosa potenza sapida di Riesling Rangen, la complessità “definitiva” di Pinot Gris Rangen, la classe di Gewurztramier Clos Windsbhul, la complessità di Riesling Brand, costituiranno argomento di discussione per il resto del viaggio. Alla fine, due gioielli: Pinot Gris SGN Clos Jebsal 1999 e 1994. Due giardini di tè, frutti tropicali e spezie orientali. 200 grammi/litro e più di zucchero residuo, e ti attaccheresti alla bottiglia.  

Delicatessen

Il sale di Rangen non se ne vuole andare. Dopo averlo riassaggiato prima di commiatarci dalla Signora Humbrecht, resta tatuato sulla lingua nel breve tratto di strada che ci aspetta. Da Turckheim a Wintzenheim sono manco dieci minuti. Da Josmeyer non abbiamo appuntamento, ci mettiamo seduti da bravi turisti ad assaggiare per comprare. La stanza per la degustazione è tutta in legno, e trasuda tradizione. Niente a che vedere con la freddezza quasi da ufficio di Zind Humbrecht. La signora addetta alle vendite è gentile – e non è una eccezione da queste parti – ma ci fa capire subito che non vuole perdere tempo senza batter cassa. Noi non la deluderemo. Di fronte ai nostri occhi e ai nostri nasi, una batteria di 2007, 2006 e 2005 tutti complessità e tenerezza. Proprio come il Riesling 2004 del pranzo. E, nuovamente, una naturalezza e una facilità di espressione disarmanti. Il fuoco di Zind Humbrecht è di un altro pianeta, ma sputare questi vini è molto difficile. E infatti non lo facciamo.

I Vosgi si sono mangiati il sole, ci dirigiamo in albergo, a Riquewhir.

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Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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