La Dolce Vita del Granocchiaio (seconda parte)6 min read

…Io mi accomodai e lei tornando dalla cucina mi disse: “Avrei preparato queste: mi aveva detto che le piacevano tanto……..” e mi mise davanti una piccola fondina di plastica azzurrina piena di patate fritte! Una quantità che poteva andar bene per 2 o 3 persone!

“Ma sono tante signora” le dissi, ma lei di rimando: “Si, ma lei è giovane, e poi deve sostenere gli esami” e ripartì per la cucina per tornare con una padella dove due uova affrittellate sembravano dei soli con il collettino bianco. Io che avevo nel frattempo già assaggiato le meravigliose patate fritte mi tranquillizzai perché avevo cominciato a pensare che mi avesse preparato solo quella generosa dose di patate fritte.

 

Al terzo viaggio arrivò un bottiglione di vino rosso. Era un bottiglione di quelli da 1 litro e mezzo, che allora andavano tanto di moda. Le uova, fresche sicuramente – si vedeva benissimo perché i tuorli stavano in piedi – erano celestiali e cotte alla perfezione, si accompagnavano divinamente con le patate, anch’esse cotte perfettamente. Ma quello che veramente amalgamava tutto era il vino. Scuro, quasi impenetrabile, con un bordo violaceo e un piccolissimo residuo dolce che non guastava affatto. Anzi. Probabilmente verso l’autunno avrebbe preso altre declinazioni, ma per il momento era una goduria senza fine.

Io ho sempre mangiato lentamente, ma nei casi dove ci sono cose buone mangio ancora più lentamente. Mangiava lentamente anche mia mamma e credo sia il metodo migliore per prolungare il piacere delle cose buone. Ci misi una mezza eternità, ma finii tutte le patate, ovviamente le uova con tanto di scarpetta: la faccio anche quando non sono a Roma, figurarsi lì.  Il vino ne bevvi assai e mi fece sentire bene, molto bene.

La signora, che con discrezione aveva evidentemente visto quanto avessi apprezzato la sua cenetta,  la vidi così felice di avermi accontentato che risultò essere la cosa più bella di tutta la storia. Non ne parlò molto, ma il suo sorriso discreto faceva capire quanta gioia io gli avessi dato nell’apprezzare il suo mangiare.

È un sentimento che conosco bene. È lo stesso che ho provato per anni cucinando per le mie figlie, per i miei fratelli, per gli amici e infine per i migliori clienti di sempre,  i miei nipoti. Con loro è stato, ed è tuttora, un godimento allo stato puro. Di quelli che si possono provare solo da nonni felici. I miei nipoti mangiavano insalata fresca a 4 anni e all’asilo chiedevano a mia figlia come fosse riuscita nell’impresa, perché erano gli unici ragazzi a farlo. Mia figlia disse alle maestre: “Chiedetelo al loro nonno, è stato lui l’artefice.” Me lo chiesero, e io gli risposi: “L’insalata l’hanno piantata loro, poi l’hanno raccolta e ora la mangiano”. A foglie intere, senza tagliarla. Lo stesso fanno con i pomodori, i cetrioli, le fave, i pisellini e tutti gli odori dell’orto che coltiviamo assieme, basilico in testa.

La signora della pensione mi chiese cosa volessi per la sera successiva e io gli risposi: la stessa cosa! Così la sera seguente mi ritrovai davanti una fondina di patate fritte ancora più grande della sera precedente e le uova erano tre. Il vino era il bottiglione della sera prima e dal livello che segnava capii di averne bevuto un bel po’.

Per la terza sera io non avevo chiesto varianti, ma la signora mi fece le patate arrosto anziché fritte con delle fette di Roast beef. Era tutto buono e glielo dissi, ma pensavo di averla sacrificata costringendola a dover comprare la carne per me.

Gli esami procedevano alla grande. Finiti gli scritti iniziarono gli orali e con tutte le materie che avevo in pratica avevo delle interrogazioni sia la mattina che il pomeriggio. Senza contare che con certi professori facevano anche 4 o 5 materie o classi.

Come detto scoprii sulla bacheca che dovevo fare anche un esame che non sapevo di dover fare. Si trattava di fisica. Mi feci prestare un libro, scelsi un capitolo, la pentola di Papin (tanto per rimanere in tema) e la sfoderai come “argomento a piacere” quando alle domande dei prof non sapevo rispondere. Questa era la tecnica di base che avevo messo a punto per tutti gli esami. Con quella quantità di materie era impossibile essere perfettamente preparato su tutto. Allora di ogni materia studiai bene un solo argomento e quando mi interrogavano e non andavo avanti arrivava prima o poi il fatidico: “Mi dica un argomento a piacere”. E io via! Perché quello lo dovevi sapere proprio bene. così facendo il prof pensava: “Mah, se questa cosa la sa così bene, può darsi che sappia bene anche altre e ora con questi esami, l’emozione, voi sapè cosa….”. E la barca procedeva.
Dico subito che fui promosso a giugno e ho avuto sempre la faccia tosta di raccontarlo per vedere le espressioni della gente quando gli dicevo che avevo fatto un esame con 32 materie.  Più una.

Quando la tensione degli esami si allentò con un amico trovammo anche il tempo e l’occasione per fare quello che si fa a quell’età in una città come Roma. No, non si tratta di musei o di Vaticano, ma di signorine piacenti e compiacenti. Solo che forse ci prendemmo un po’ troppo gusto o si perse il senso della misura e tutti e due si rimase senza soldi per tornare a casa.
Io e l’altro, un siciliano che aveva avuto il ruolo di Lucignolo,  ci preoccupammo un po’, però solo dopo aver combinato il guaio. Da vero Lucignolo la mattina seguente mi fa: “Robberto, minghia, ho trovato la soluzione!” “e quale sarebbe?” “andiamo a vendere i libbri, tanto gli esami sono finiti, che ce ne fotte di loro?”. Io veramente non la pensavo così, ma le circostante mi convinsero che non c’era via d’uscita. Vendemmo e realizzammo il necessario per tornare a casa in treno, dopo però aver fatto un pranzetto ad una trattoria, ma senza dirlo alla signora della pensione altrimenti se la sarebbe presa a male.

E il delitto di via Monaci che c’entra in tutta questa storia? C’entra, c’entra. L’abitazione della signora dove ero a pensione era proprio in quella zona e quando prendevo il bus per rientrare vedevo sempre la scritta “PIAZZA BOLOGNA” sull’autobus. E non potevo fare a meno di pensare all’”Affaire Martirano, Fenaroli e Ghiani”

Roberto Tonini

Nato nella Maremma più profonda, diciamo pure in mezzo al padule ancora da bonificare, in una comunità ricca di personaggi, animali, erbe, fiori e frutti, vivendo come un piccolo animale, ho avuto però la fortuna di sviluppare più di altri olfatto e gusto. La curiosità che fortunatamente non mi ha mai abbandonato ha fatto il resto. Scoperti olio e vino in tenera età sono diventati i miei migliori compagni della vita. Anche il lavoro mi ha fatto incrociare quello che si può mangiare e bere. Scopro che mi piace raccontare le mie cose, così come a mio nonno. Carlo mi ha invitato a scrivere qualche ricordo che avesse a che fare con il mangiare ed il bere. Così sono entrato in questa fantastica brigata di persone che lo fanno con mestiere, infinita passione e ottimi risultati. 


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