Insegnando s’impara4 min read

Di mestiere, faccio l’insegnante. Mi chiamano docente, food educator, più spesso “profe”. Insegno la degustazione, beninteso: una materia inconcepibile quando studiavo io e anche dopo, quando facevo il cameriere o la guida enoturistica. Le mie materie sono vino e olio più che altro, ma niente è più interdisciplinare del cibo per cui si può andare lontano. I programmi sono vari, gli allievi pure. Annoiare, quindi, non mi annoio; anzi imparo a mia volta e in questo sono in buona compagnia, da Seneca (docendo discimus) a Frank Oppenheimer (the best way to learn is to teach).

Certe botticelle dalla doppia vita

Stefano ha presentato un lavoro di ricerca storica sulla seconda vita dei barilotti di Sherry, una volta arrivati a destinazione in un porto inglese. Questa tradizione nacque quando i vini non viaggiavano in bottiglie: svuotati del contenuto, i barilotti venivano portati in Scozia e riciclati come contenitori di affinamento per whisky.

All’inizio era solo una questione di convenienza pratica, poi però il giochetto è andato avanti quattro secoli e il gusto del legno impregnato di Sherry si è installato come un software. Ma quello che Stefano mi ha fatto pensare è che oggi lo Sherry viaggia in bottiglia, dal 1981 anche per legge. E allora, le botticelle per i single malt? Semplice, le spediscono da Jerez senza vino, appena svuotate dell’Oloroso o del Pedro Ximénes. Vengono gestite apposta e certamente costano più di prima, ma il grosso del mercato continua ad apprezzarne l’effetto. La forza del gusto acquisito è la lezione, e oggi c’è chi vende whisky affinato in barriques borgognone.

Poi Alexander, allievo bulgaro, mi porta in assaggio un vino del suo paese trattato in modo opposto: è affinato in botti dove ha maturato un brandy. Si tratta del Cabernet Sauvignon “Brandy Cask” della Black Sea Gold di Pomorie, che producendo anche distillati fa tutto in famiglia. Il vino è decisamente buono, anche se non saprei dirvi quale sia il contributo distintivo del contenitore di quercia spiritato. La cosa mi spinge in rete, dove scopro che l’australiana Jacob’s Creek mette in vendita l’immancabile Shiraz anche nella variante Double Barrel, con affinamento finale in botti che hanno prima contenuto whisky.

I gusti acquisiti, medito, possono prendere direzioni contorte e imprevedibili. Qualche volta addirittura opposte alla ragione che gli ha dato vita. Il cappello da baseball, per esempio: ha una visiera grande, dettata dall’orientamento del campo e dall’esigenza di non avere la luce negli occhi durante le azioni più tipiche del gioco.

Il berretto è diventato popolare in tutto il mondo, ma avrete notato che spesso e volentieri la visiera viene piegata all’insù o girata all’indietro, perdendo paradossalmente la sua funzione controsole. Come cantava Renato Carosone rivolto al guaglione dedito al baisiball: “Puorte …‘na cuppulella cu ‘a visiera aizata…” (Tu vuò fa’ l’americano, 1956)

La dannazione dei traduttori automatici

Certe volte a insegnare gastronomia mi diverto proprio. Succede spesso coi traduttori automatici di cui gli allievi fanno uso e abuso. Mi trovo infatti a dover leggere e discutere tesi di master dove è obbligatoria la lingua inglese. Sono classi miste di nazionalità assai varie, e chi non è di madrelingua inglese cerca di fare del suo meglio, come del resto facciamo noi docenti. Ma certi studenti italiani ricorrono spesso e volentieri alle traduzioni automatiche, con effetti esilaranti. Che poi sulla questione del pensiero decisionale delle macchine ci sia ben poco di esilarante, è un’altra meditazione.

Lipoproteina superstar. Si trattava di una tesi sul percorso dalle olive all’extravergine, Cristina voleva citare “la pellicola di lipoproteina”. Il traduttore automatico ha inteso pellicola in senso cinematografico. Cristina non ha nemmeno riletto e ha incollato “the lipoprotein movie…”.  La commissione di tesi è stata a lungo incerta se candidare all’oscar Cristina come sceneggiatrice o la lipoproteina come attrice protagonista. Voto alla tesi, zero.

Vitigni anglicizzati.

A prima vista lascia interdetti il pasticcio di un altro allievo italiano, Marcello. Leggo: “A Puddara is charging 100%…”. Poi, chiarito che A Puddara è un vino etneo da sola uva Carricante, bevuto subito per scrupolo professionale e trovato ottimo, ho intuito come il software di traduzione avesse dato il meglio di sé. Ha interpretato la doppia r del vitigno come un errore di scrittura di esseri umani ignoranti. Quindi ha trattato la parola come participio presente del verbo caricare, e ha tradotto implacabile colla forma corrispondente di “to charge”.

Per fortuna il testo di Marcello era solo una bozza, ma la cosa si fa interessante. Mi aspetto di leggere “Garlic” per Aglianico, “St. John” per Sangiovese e “Gloomy King” per Refosco; per il terzetto Cagnina/Canaiolo/Cagnulari confido in un allegato audio con bau-bau affettuosi e prolungati

Alessandro Bosticco

Sono decenni che sbevazza impersonando il ruolo del sommelier, della guida enogastronomica, del giornalista e più recentemente del docente di degustazione. Quest’ultimo mestiere gli ha permesso di allargare il gioco agli alimenti e bevande più disparati: ne approfitta per assaggiare di tutto con ingordigia di fronte ad allievi perplessi, e intanto viene chiamato “professore” in ambienti universitari senza avere nemmeno una laurea. Millantando una particolare conoscenza degli extravergini è consulente della Nasa alla ricerca della formula ideale per l’emulsione vino-olio in assenza di gravità.


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