Continua e si conclude il viaggio in Lazio del padre putativo di Rockea
Per molti c’è bisogno di riscossa da un presente stagnante, altri sognano il poeta agreste, chi coltiva la memoria dei vini gialli sulla vena, chi cerca il futuro superlazial, chi la stirpe etrusca, chi la Borgogna, chi fa il contadino, chi ha perso e chi ha vinto, chi ama i milioni, chi i sogni di gloria.
La pratica dei vitigni internazionali continua ad affascinare e molti continuano a piantare nei terroir vulcanici del Lazio chardonnay e merlot, sauvignon e syrah; molti altri su questi vitigni hanno costruito la loro fortuna. Pochi però riescono a dare carattere distintivo ai vini: prevale piuttosto un gusto medio che non si assume rischi, un coro insomma, in cui è difficile, ma non impossibile, sentire una voce originale.
Le viti autoctone hanno ritrovato la strada della vigna, che sembrava perduta; speriamo trovino anche un felice percorso in cantina, dove troppo spesso si tende all’esibizionismo muscolare del legno e dell’estrazione che soffoca profumi e sapori.
L’identità dei territori si sta definendo: in questo percorso, la via dell’autoctono è più diretta, ma non si può ignorare il fatto che i vitigni internazionali hanno una storia radicata – aggettivo calzante quanto mai – e delle possibilità espressive peculiari.
Schierarsi in maniera ideologica da una parte o dall’altra di una barricata/barricaia più concettuale che reale, sarebbe una sciocchezza, sia per chi produce che per chi beve.
I segnali più espressivi arrivano dal cesanese che oramai ha riacquistato diffusione e carattere e dal grechetto. La rinascita dell’uva rossa deve molto al lavoro e alla presenza di Manfredi Berucci che cercava il cru sui colli attorno al Piglio, mentre tutti spiantavano; Berucci ha sempre cercato il dialogo con altri produttori, organizzando assaggi incrociati, manifestazioni, promozioni.
Oggi Berucci si gode un meritato riposo, ma i frutti del suo lavoro si trovano sparsi con affetto nel territorio. Altri colli, altri paesaggi, stessa partecipazione quella di Sergio Mottura, cantore del grechetto e delle argille della Teverina. Altri nomi si consolidano o si affacciano qua e là, piccole isole di una geografia frastagliata che ben rappresenta la situazione chiaroscura del vino laziale.
Un discorso a parte per i Castelli Romani: forse la cosa che frena più di ogni altra l’auspicata rinascita del vino di Frascati, Marino, Monteporzio & co., è proprio la mitologia stessa der bianco dei castelli che affonda le radici in tempi remoti e si sostanzia, dal Belli in poi, come prerogativa tutta romana e laziale der vino bbono. L’altro grande impedimento sembra essere – un poco in tutt’Italia, a dire la verità – il culto della refrigerazione dell’uva e dei mosti. E così capita spesso che i vini meno ambiziosi si dimostrino i più buoni.
In conclusione: per incontrare e capire il vino del Lazio – ma per quale vino non è così? – è meglio abbandonare la tassonomia dello scaffale e la velocità dell’autostrada; avviarsi sulle provinciali, seguire le curve lente che scavalcano le colline, infilare i rettifili che tagliano la pianura per cercare i paesaggi che generano le bottiglie.
E quindi dopo le degustazioni incontestabili, le file di bicchieri allineate, le parole arrotate e suadenti, fruttuose e fruttanti, credo sia utile tornare al vino ed andare nelle aziende per conoscere uomini e vigneti, cantine e panorami.
Ecco, tornare alle campagne, con l’idea di cercare nel vino una soddisfazione che appartiene più allo spirito che alla sola sensazione gustativa.