In questa rubrica non parleremo dei problemi geriatrici di qualcuno di noi (anche se sarebbe utile). Il nostro intento è quello di andare a scovare e raccontare i vini italiani “non giovanissimi”. Abbiamo pensato a questa dizione perché non parleremo quasi mai di quelli che vengono definiti “vini da grande invecchiamento” ma cercheremo sorprese, chicche, specie tra vini che nessuno si aspetterebbe.

A Mattia Vezzola da Moniga non mancano certamente né la scienza, né la facondia. E così, per parlare di longevità dei vini e per presentare Rosamara 2024 e Molmenti 2019 – l’ultimo frutto della sua antica idea di “rosati da invecchiamento” prodotti da Costaripa, la quasi centenaria azienda di famiglia sulle sponde bresciane del Garda – prima dei dati tecnici e agronomici l’enologo veneto ha sciorinato una serie di massime e di aneddoti folgoranti.
Il principio di partenza è che, facendo tesoro dell’esperienza del passato, “bisogna ristrutturare il concetto di rosè”, abbandonando la nozione di vino facile ricavato da uve spesso di scarto e affidandosi invece alla vocazionalità e a una coltivazione dedicata espressamente alla produzione di quella tipologia.

Parlando di epigenetica, Mattia ha quindi cominciato con una citazione del compianto Denis Dubourdieu: “Per capire un vino sarebbe necessario che tu gestissi per almeno cento anni una vigna di almeno tre generazioni”. Ha continuato con la più prosaica ma non meno efficace “teoria del gatto”: finchè sta fuori dal portone di casa, il gatto per mangiare deve adattarsi a ciò che trova e quindi si mantiene agile e scaltro, quando invece sta in casa e ha cibo con facilità, si imbolsisce sulle gambe del padrone”. Ciò per dire che la vite, come il felino, per dare il meglio le risorse deve andarsele a cercare nel tempo e nella profondità del terreno, trovando così un equilibrio stabile. Riferendosi poi all’uso delle botti, alla loro età e alla loro pulizia, Vezzola ha tirato fuori un vecchio suggerimento di Patrick Leon: “I rosati non si fanno come si fa il vino, si fanno come si fa lo Champagne”. Il fulmen in clausola è stato riservato alla relatività del concetto di qualità, così sintetizzato: “E’ molto più corta un’ora d’amore che un minuto col culo sulla stufa”.
E a riprova di quanto sopra ha stappato una bottiglia di Molmenti 2011, Valtènesi doc a base di groppello al 50%, 30% di marzemino, 10% di Barbera e 10% di Sangiovese. Tutte le uve sono provenienti dall’omonimo vigneto, che comprende i 4 ettari di filari originari acquisiti da Vezzola nel 1992 e portati fino agli odierni 15, per un’età media di 60 anni. Il tutto, ha sottolineato, solo ed esclusivamente per fare un rosato da invecchiamento in botti da 4 ettolitri, destinato poi a maturare due anni in tonneaux e tre in bottiglia prima di andare sul mercato.

Il colore è un ambrato carico e tendente al fulvo, che ricorda i riflessi della volpe.
Al naso è fatalmente cangiante e si evolve col passare dei minuti, fino a stabilizzarsi in un ventaglio elegante ed equilibrato di buccia di agrumi maturi e anche candita, melata di castagno, polvere da sparo, pietra focaia, idrocarburi. Al palato è complesso, asciutto ma di sorprendente freschezza, dotato di una godibile sapidità e di un bella lunghezza che nell’insieme danno una sensazione di composta solennità.
Peccato che, ovviamente, non sia più disponibile per l’acquisto. Ma visto che Vezzola garantisce anche per le annate più recenti una vita di almeno vent’anni, ci si potrebbe fare un pensierino e poi dimenticare tutto in cantina.
