Un bel libro, scorrevole, ricco di aneddoti familiari, che mi ha ricordato molto il modo di esprimersi pacato di Piero Antinori.
La storia della più importante famiglia del vino italiano è un godibilissimo racconto, che come si dice in questi casi, si legge tutto d’un fiato. A me, per lo meno, è successo così. Il motivo è facile da spiegare: avevo voglia di riportare alla memoria atmosfere e vicende che mi è capitato di vivere come cronista.
Infatti una buona parte del libro fa riferimento a luoghi che ho visitato, a vini che ho conosciuto e degustato, a personaggi che ho intervistato e con cui spesso ho scambiato opinioni, e di cui in qualche caso, sono diventato amico. Villa Antinori, Tignanello, Solaia, Cervaro della Sala, ma anche luoghi come Badia a Passignano o Guado al Tasso (una volta si chiamava Tenuta Belvedere) e ancora lo stesso Piero Antinori, Giacomo Tachis, Renzo Cotarella e altri forse meno conosciuti come Giovanni Santoni ( è stato per molti anni il direttore commerciale dell’azienda) o Giancarlo Notari ( direttore alle vendite) e tanti altri. Insomma la curiosità è stata una molla importante.
Mentre scrivevo queste righe mi sono ricordato di quanto mi rispose il caporedattore centrale di un’importante rivista “generalista” al quale avevo proposto un pezzo sugli Antinori e le loro capacità di coniugare tradizione e modernità. Il navigato collega mi disse che Antinori era una grande e vecchia azienda – verissimo – ma proprio per questa vetustà – seicento e passa anni – poco o per nulla attraente e men che mai, fucina di novità.
Era meglio che mi occupassi di una piccola cantina e lì mi disse un nome, che effettivamente ebbe un momento di notorietà ma poi scomparve nel mare magnum del vino italiano. Il tempo però è galantuomo. Gli Antinori, nonostante le crisi grandi e piccole, continuano ad essere sulla breccia e le nuove generazioni, le figlie di Piero, Albiera, Allegra e Alessia, tengono il passo e progettano il futuro. D’altra parte quando si parla di vino italiano e toscano all’estero, è un nome che brilla di luce propria ed ha avuto il merito di fare da apripista quando erano davvero pochi quelli che si avventuravano oltreoceano per proporre il loro vino.
Anche perché non si era affatto accolti bene. Sono gustosi i racconti in proposito che vengono riportati nel libro. Oggi che il vino italiano specialmente negli Usa è diventato un must, quei tempi sembrano lontanissimi ma in realtà non lo sono affatto. Sono appena l’altro ieri.
Nel libro il Tignanello, il Cervaro della Sala, il Solaia, il Villa Antinori, l’Antica Napa Valley Cabernet Sauvignon insieme ai più recenti Mezzo Braccio Monteloro 2009 e al Montenisa Rosé, sono i testimonial scelti per illustrare la storia più recente dell’azienda. Sono vini risultato non solo di uva e di terroir ma di un percorso, fatto di relazioni, di conoscenze, di incontri, di intuizioni , di interpretazioni. Forse è proprio questa la grande differenza tra Antinori e tante altre aziende non meno prestigiose.
Il territorio del Chianti Classico dove tutto è iniziato e poi via via le altre aree man mano acquisite vengono proposte come espressioni profondamente toscane o regionali italiane ma tutte portatrici di forti valenze e di valori storico produttivi irrinunciabili in grado però di confrontarsi con il mercato globale.
Il profumo del Chianti narra di una famiglia che è riuscita a rientrare in possesso del palazzo avito così come dell’azienda entrata nell’orbita dell’inglese Whitbread. Sono imprese che non a tutti sono riuscite. Per questo vien da sorridere quando si leggono delle critiche caciarone alla sua idea di aprire ad altri vitigni il Rosso di Montalcino. Mario Incisa della Rocchetta raccontava che i suoi contadini mal sopportavano di applicare modalità diverse – rese più basse, ecc. – nell’allevamento dei vigneti. Di fronte a tali incrollabili convinzioni commentava sarcasticamente “They know better”. Appunto. Il libro serve anche a capire questo.