Il piatto per cui potrei uccidere e quello che proprio non sopporto-parte 35 min read

Fagioli al fiasco

Non sperate di trovarli ancora in un ristorante o in una trattoria, perché per farli nella giusta maniera ci vogliono diverse ore. Sono fagioli cannellini messi in un fiasco gnudo la sera prima con pochi ingredienti e poi cucinati sopra la carbonella. È bene specificare che per carbonella in Maremma s’intende quel carbone proveniente dai rami più piccoli dell’albero, e quindi anche il carbone è di una dimensione minore, all’incirca quella di una matita o un grosso ferro da calza.

Con questo carbone il calore arriva più uniforme sulla superficie del fiasco con un sapiente mix di brace e cenere. Fiasco che in ogni caso deve essere temperato per non rompersi. In effetti è proprio il sistema di cottura uno dei pilastri per la riuscita di questo incredibile piatto. Il fiasco sta adagiato e inclinato di 45° e per tappo un batuffolo di cotone. La lunghissima cottura nel fiasco fa si che si imprigioni una quantità di profumi incredibile. Per avere un’dea dei tempi necessari alla cottura della ricetta originale basta sapere che il fiasco veniva messo appeso al gancio del paiolo dentro ai camini dei focarili.  Per la cronaca ho avuto il privilegio di cuocere diverse volte questo capolavoro. Ci sono strumenti simili, per lo più in Pyrex, ci vengono dei fagioli molto buoni, ma nemmeno parenti degli originali. Vino a piacere, ma un giovane rosso toscano ci sta a pennello.  

Ogliole fritte (con l’accento sulla prima o, chiamate anche attinie)

Presumo che sia vietata la raccolta ai giorni d’oggi, e allora dico che ho fatto in tempo ad assaggiare il più spinto sapore di mare che possa esistere. Solo chi ha gustato come me questo piatto sa con quale intensità si riesce a godere il profumo ed il sapore marino. Sono molto rare le situazioni in cui si trovavano, a suo tempo si facevano dietro gli scogli di Talamone, andando verso l’Uccellina. Una volte raccolte con un coltellino dagli scogli emergenti, appena sotto il pelo dell’acqua – con i guanti, ma anche senza come facevo io – vanno messe in un secchio con l’acqua di mare e poi trasportate velocemente al luogo di frittura. Meglio rimanere entro le due ore al massimo.

Dal momento che l’acqua di mare non è per il momento bevibile, propongo di abbinare una splendida acqua minerale, come per esempio quella del Fiora. Ogni e qualsiasi vino potrebbe rompere l’incantesimo di questa perfezione.

 

 

Lumache in umido

Si parla di quelle lumache con il guscio spesso che italiano vengono chiamate Rigatelle, e da noi in Maremma Mezzanelle.
In gioventù, già con un certo interesse verso il cibo, mi misi in testa di assaggiare tutte le versioni delle lumache cucinate al mio paese. Quindi provate quelle della mia nonna, della mia mamma, quelle di mia suocera, e dei parenti mi feci invitare da quelle massaie famose per essere delle valenti cuoche. E qui intendo cuoche di casa, ma che magari avevano dei trascorsi in pranzi di trebbiatura o similari. C’erano leggere differenze sulla “spurgatura “ fatta fare alle lumache, qualche differenza sul lavaggio, ma davano differenze minime. C’era poi chi partiva scottando preventivamente le lumache e chi invece partiva direttamente “nature” così com’erano.

E qui la differenza c’era, e come. Dove invece le differenze diventavano notevoli era nel soffritto di partenza. Chi ci metteva gli odori come se fosse un ragù, chi ci metteva la pancetta o la guanciola del maiale, chi ci metteva un battuto di lardo, chi pezzetti di salsiccia, e così via. Con queste variazioni è evidente che il risultato finale cambia notevolmente.

C’era poi la faccenda del vino e del pomodoro che faceva ancora riscontrare delle differenze. Ma vera e fondamentale differenza veniva dal tipo di soffritto. L’erba aromatica che domina questo piatto è la nipitella, uno dei profumi più eccelsi della nostra cucina. Da noi lumache, porcini, zucchine, carciofi non si cucinano senza poca o tanta nipitella. Quella con foglie piccole che cresce in terreni aridi o nei cigli delle strade di collina è la più buona.
La mia tournè sulle lumache si chiuse nell’arco di un paio di anni, o giù di li.
Quando assaggiai quelle che ritenevo, e ritengo, le migliori lumache mai mangiate, capii subito che non c’era lotta con  le altre, queste erano diversi gradini sopra tutte le altre.
Ci ritornai con calma perché mi insegnasse tutti i passaggi e così vidi confermate le tremendamente semplici regole ed ingredienti della preparazione che mi erano state anticipate.

Lumache spurgate per tre giorni in farina o semola e un po’ di nipitella.

Lavate e sciacquate abbondantemente con l’acqua della fonte.
Per il soffritto: abbondante (tanto) olio extravergine di oliva, un trito sempre abbondante di aglio e nipitella, una piccola pementa fatta a pezzi. Tutto e solo questo. Quando l’olio caldo cominciava a soffriggere Adua buttava le lumache ancora vive e appena scolate dall’ultimo passaggio nell’acqua.
A fuoco moderato queste buttavano fuori i loro umori che lei faceva consumare lentamente girando spesso con un mestolo di legno. Cucinava sopra una cucina economica, quelle a legno, dove una buona ricetta diventa un piatto sublime. Una spolveratina di sale era già stata data. Quando questi liquidi erano stati consumati per buona parte, buttava giù un bicchiere di vino rosso e faceva sfumare. Una volta sfumato il vino ricopriva le lumache con acqua fresca, gli faceva riprendere il bollore, metteva un bel cucchiaio di concentrato di pomodoro, poi abbassava il fuoco e faceva consumare tutta l’acqua.  Faceva consumare due o tre volte completamente l’acqua. L’ultima volta calcola la densità del sugo che doveva essere ristretto, ma non troppo. Scuro e profumato.

Nel titolo si dice “che potrei uccidere per un piatto”, io per questa ricetta dovrei fare il contrario, far risorgere la suocera di mio fratello, Adua Poggiali di Montepescali. Ma anche senza resurrezioni me la sbrigo: sua figlia Manuela, mia cognata, le fa come lei al 98%, ed è più che sufficiente!

Dimenticavo…. la classifica! Vincono le ultime tre ricette: bronzo per il fagioli al fiasco, argento per le Ogliole fritte, medaglia d’oro per le Lumache in umido. Quelle di Adua.

Roberto Tonini

Nato nella Maremma più profonda, diciamo pure in mezzo al padule ancora da bonificare, in una comunità ricca di personaggi, animali, erbe, fiori e frutti, vivendo come un piccolo animale, ho avuto però la fortuna di sviluppare più di altri olfatto e gusto. La curiosità che fortunatamente non mi ha mai abbandonato ha fatto il resto. Scoperti olio e vino in tenera età sono diventati i miei migliori compagni della vita. Anche il lavoro mi ha fatto incrociare quello che si può mangiare e bere. Scopro che mi piace raccontare le mie cose, così come a mio nonno. Carlo mi ha invitato a scrivere qualche ricordo che avesse a che fare con il mangiare ed il bere. Così sono entrato in questa fantastica brigata di persone che lo fanno con mestiere, infinita passione e ottimi risultati. 


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