Il metodo4 min read

Penso di essere abbonato alla stragrande maggioranza delle riviste estere sul vino. La cosa ha molteplici scopi: mantiene in forma la mie poco sviluppate cognizioni di inglese e francese, mi tiene informato su quanto accade attorno a noi e “last but not least” appaga la mia insana voglia di conoscere le valutazioni dei miei colleghi sparsi per il mondo. Proprio su questo punto Decanter del mese di agosto mi ha dato stimolanti spunti di riflessione. Aprendo infatti la degustazione dei Brunello di Montalcino 2001 sono rimasto abbastanza sorpreso nel constatare che il migliore per questa rivista così conosciuta ed apprezzata nel mondo era quello della Cantina Sociale di Montalcino. Nulla da eccepire sulla libertà di giudizio dei miei colleghi inglesi ma  mi sembrava comunque strano che un vino molto moderno e fino ad oggi poco premiato come quello potesse aspirare al massimo riconoscimento. Per fortuna leggendo i commenti all’articolo ho visto che un mio caro amico aveva fatto parte del panel di degustazione. Ho alzato il telefono è gli ho chiesto, con il dovuto rispetto, spiegazioni. Queste non si sono fatte attendere e credo che sia interessante conoscerle per voi come per me. Tutto parte dal sistema con cui Decanter  organizza i propri panel di degustazione. Convoca un certo numero di esperti (Da MW a importatori, da giornalisti ad appassionati) e gli sottopone i vini in questione. Nel caso dei Brunello erano circa 140 campioni rigorosamente bendati. Non tutti assaggiano tutto (in questo caso erano divisi in due o più gruppi) ed al termine di questa fase vengono ritirate le schede con i punteggi. I punteggi vengono sommati e per i migliori si arriva all’assaggio finale, tutti attorno ad un tavolo con un registratore acceso che non si perde una parola di quanto viene detto a commento. Alla fine viene fatta nuovamente la somma ed i migliori sono “semplicemente” quelli che hanno ottenuto la media punti più alta.

Sottolineo il “semplicemente” perchè questo sistema di organizzare i panel di degustazione, che definisco “asettico”  può portare a valutazione molto diverse a seconda di come sia composto il Panel. Il mio amico diceva infatti che era l’unico a cercare nei vini una reale rispondenza con il vitigno(forse anche l’unico a conoscere il Sangiovese ho subdolamente pensato), premiando quelli meno “concentrati” e penalizzando i campioni troppo “palestrati” e di difficile riconoscibilità. Ma gli altri valutavano su altri parametri, alla base di cui vi era il cosiddetto “stile internazionale”.

Il mio amico ha concluso dicendo (molto giustamente) che per un mercato come quello inglese, dove non esiste produzione ma solo vendita l’importante è dare “comunque” un consiglio qualitativo, assolutamente staccato da una valutazione “politica” che tenga conto di quanto quel vino rappresenti il/i vitigni ed il territorio in cui nasce. In parole povere: “io ti dico che questo per il gruppo di esperti radunati è il vino più buono di questa denominazione, ma non ti dico se gli esperti conoscono il territorio, le sfumature che può dare il vitigno etc”.  A questo sistema “asettico”, perfettamente plausibile, si oppone quello “politico” che parte da presupposti diversi. In primo luogo il panel di degustatori deve essere molto competente in quel territorio e deve aver lavorato più volte assieme, per amalgamare al meglio un comune sentire di base. Da questo deriva il fatto che se un vino esce dai parametri conosciuti (colorazione troppo o troppo poco intensa, profumi non riconducibili a quelle uve etc) scatta immediatamente una penalizzazione del vino stesso. Il panel praticamente dice “Caro bello tu non ci convinci. Sarai sicuramente un buon vino ma secondo noi sei stato fatto con uve o con sistemi molto distanti da quelli che invece vorresti farci credere. E dato che noi sappiamo che in quel territorio è impossibile fare un vino del genere (senza ricorrere a sotterfugi) noi non possiamo premiare il tuo, peraltro buon, prodotto

Inutile sottolineare che tra il metodo “asettico 100%” e quello “politico 100%” vi sono innumerevoli sfumature, che poi rappresentano il vero “metodo” di degustazione di ogni guida o rivista. Ora pongo la domanda da un milione di dollari. Esiste il sistema migliore? E se esiste qual’è?. Io una risposta ce l’avrei, ma prima vorrei sentire che cosa ne pensate voi

Scrivete a carlo.macchi@winesurf.it

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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