Il vino ci parla. E lo fa attraverso il linguaggio dei segni che noi appassionati, degustatori, lettori, sommelier, enoturisti, ogni volta che assaggiamo un vino possiamo interpretare sulla base delle nostre conoscenze e competenze. E quando si parla di segni, qualunque essi siano, entra in campo la semiotica, ovvero, giusto per buona memoria, quella disciplina che studia i segni e il loro significato. Possiamo quindi parlare di “Enosemiotica”?
La domanda bisognerebbe rivolgerla a Francesco Annibali, semiologo della scuola di Umberto Eco ma anche giornalista e scrittore enogastronomico. E con queste sue referenze, credo proprio che si sia anche divertito a scrivere il suo libro più conosciuto, “Il Linguaggio del Vino”, pubblicato tre anni fa da Ampelos ma tuttora godibilissimo, l’argomento di certo non ha scadenza.
Anche se l’autore ci rassicura che la lettura del volume è agevole, è bene premettere che qualche tecnicismo derivante dalla disciplina utilizzata per l’analisi del linguaggio del vino è presente ed è inevitabile, ma niente di particolarmente complicato, precisa Annibali.
Di seguito daremo degli input, dei flash giusto per suscitare la curiosità e l’interesse del lettore per il l’eventuale successivo autonomo approfondimento.
Il libro è suddiviso in tre parti: la prima è dedicata alla lingua della degustazione, ovvero ai meccanismi di generazione del linguaggio della degustazione; la seconda alle lingue del contesto-vino e dei suoi sottocontesti; nella terza infine si va “a spasso nell’Enosfera” visitando alcuni termini molto in uso nel settore. Ma è già dall’introduzione che Annibali ci dà un “segnale” sul contenuto del volume giocando con una magnum vuota di Monfortino 2010 di Giacomo Conterno e i segni che ci manda l’etichetta: le nebbie delle Langhe, i tartufi, Fenoglio, il locale di tutto rispetto visto il costo della bottiglia. Tutti segni non costruiti dal produttore ma interpretati dalle nostre conoscenze, aspettative, passioni.

Il linguaggio della degustazione passa attraverso un processo di risemantizzazione dei termini ovvero l’attribuzione di un nuovo significato ad un termine già esistente all’interno di una lingua; quindi, per fare un esempio, il significato del termine “grasso” non sarà lo stesso se parleremo di un vino anziché di una persona, così come il termine “ribes nero” usato per descrivere un Cabernet Sauvignon non sarà lo stesso che useremmo dal fruttivendolo. Ci sarebbe in verità a questo punto la necessità di soffermarsi su questa “rideterminazione semantica di aggettivi di uso comune” ovvero, su questi slittamenti di significato che si creano per descrivere i vini. Ne riportiamo qui sotto solo alcuni giusto a titolo esemplificativo-esplicativo.
Termini ingegneristici/architettonici: struttura, ingresso, apertura, chiusura.
Termini antropomorfi, ovvero che paragonano il vino alla vita e altre caratteristiche dell’uomo: giovane, vecchio, maturo, debole, magro, grasso, vivace, spalla, ecc.
Termini dimensionali: corto, lungo, piatto, rotondo, spigoloso…
Anche il bicchiere – ci spiega Annibali – ha un ruolo centrale nel linguaggio della degustazione con una sua sintassi: che si beva in un calice Riedel o in un cicchetto, uno Chateau Latour 1982 sarà ontologicamente lo stesso ma la narrazione sarà completamente diversa. Quindi anche il bicchiere ci parla: se ha lo stelo lungo avrà una funzione disgiuntiva creando una distanza reverenziale tra il liquido in esso contenuto e l’assaggiatore, mentre se lo stelo è corto o assente la funzione è congiuntiva (chi ha paura del whisky?). Il bicchiere inoltre rappresenta anche il confine tra la degustazione e “l’atto brutale del bere” (alla bottiglia).
Passiamo alla seconda parte dedicata alle lingue del contesto-vino. Qui l’attenzione prevalente va all’etichetta, definita, insieme alla retroetichetta, “enogramma” e anche qui troviamo un dizionario dei termini usati più frequentemente e che svolgono una doppia funzione di informazione e di seduzione. Gli enogrammi contengono infatti tecnicismi (es. maturato in barrique, vigna nutrita con sovescio…) con funzione di informazione, ma anche “esotismi” atti a sedurre il consumatore con un linguaggio poetico, richiami storici e mitologici, continui riferimenti al legame col territorio e alle tradizioni locali. Ciò allo scopo, in buona sostanza, di creare uno stretto legame emotivo tra il produttore e il lettore dell’enogramma, far intravedere a quest’ultimo la possibilità di vivere un’esperienza dionisiaca.
Un capitolo di sicuro interesse è quello dedicato allo storytelling che poi nient’altro è che l’arte di raccontare storie, un modo per ritrarre eventi reali o fittizi attraverso parole, immagini, suoni. Le finalità sono anche persuasive, si ricerca un rapporto empatico con il consumatore, ed è sempre più utilizzato dalle aziende, anche quelle vinicole. Diverte come Annibali ci mostri come si possa facilmente vedere l’analogia tra la struttura delle narrazioni popolari di tipo leggendario e mitologico, fiabe comprese, e lo storytelling nel contesto-vino. E allora il piccolo produttore diventa l’Eroe che combatte contro i grandi Antagonisti come la produzione industriale, le coercitive regole europee, il sistema cinico e corrotto, e così via.

Nella terza e ultima parte Annibali ci porta “A spasso nell’Enosfera” e diversi sono gli stimoli in essa contenuti. E’ oggi inevitabile soffermarsi sulle problematiche ambientali che portano dritte al dibattito sempre attuale su vini biologici, naturali o da agricoltura “ordinaria”. Non è qui possibile approfondire l’argomento ma certo alcuni passaggi sono stuzzicanti per chi ha interesse verso la materia. La premessa è che “l’agricoltura biologica non è stregoneria, né astrologia, né omeopatia”, ma “sostenere che non sia la panacea per tutti i mali non vuol dire che non possegga una indiscutibile legittimazione scientifica”. Ciò nonostante la prospettiva evidenziata è un’altra. Il biologico è quel settore dell’agroalimentare che decisamente possiede il più efficace storytelling. Possiede la capacità di parlare al sempre più ampio mondo salutista, “dalle mamme apprensive agli amanti dell’etnico, dai new hippies ai neofiti dell’ecologico”. Ed è in questo contesto che dobbiamo prendere atto che ormai, biologico o no, nessuno o quasi – produttori di vino compresi – fa a meno del cosiddetto Greenwashing, ovvero di una bella pennellata di verde all’immagine aziendale, un “marketing ecologico di facciata”, in buona sostanza una comunicazione mirata a migliorare la reputazione aziendale senza incidere realmente sulla sostenibilità ambientale.
Gli stimoli contenuti nel volume sarebbero ancora numerosi per chi frequenta l’enosfera, dobbiamo purtroppo sorvolare per problemi di spazio. Non si può chiudere però senza ricordare che il linguaggio del vino ha una sua liturgia, ovvero un lessico altamente specialistico il cui scopo non è quello di essere compreso ma di provocare un’adesione incondizionata, una visione “catechistica” che trasmette un’aura di sacralità elitaria, una vera e propria “strategia di creazione della distanza” tra l’esperto e la massa di non esperti. Così il consumo di vino si trasforma in rito, il vino diventa l’oggetto simbolico che con la sua ritualità definisce e rappresenta l’appartenenza al gruppo perlopiù chiuso e che biasima coloro che non rispettano la sacralità del vino e di tutto ciò che lo circonda, linguaggio in primis.
C’è materiale su cui riflettere…