I piccioni di Meleta6 min read

Chi mastica un po’ di cose buone sa di che cosa sto parlando, dei piccioni più buoni mai mangiati in Italia. Pensate che esageri? Provate a chiederlo a chi li ha mangiati anche una sola volta o ai ristoranti che l’hanno avuti in carta.

I più grandi chef d’Italia li avevano nel proprio menù e una volta che malauguratamente la produzione è terminata sono andati in disperazione. Chi mi chiedeva inutilmente dove avrebbe potuto ritrovare qualcosa di simile, chi a distanza di più di dieci anni ancora li rammenta e li rimpiange.

Come mai erano così buoni? Questo è un discorso che farò in altra occasione, così si potrà svelare “il mistero dei piccioni di Meleta”.

Quella che vi voglio raccontare è una simpatica quanto memorabile esperienza personale che a distanza di anni ancora ricordo.

 

Sono nato in una fattoria della Maremma più profonda. Sopra il nostro appartamento c’era la piccionaia di fattoria, tant’è vero che per andare a fare la levata dei piccioncini Alfredo detto lo Zulicche (stalliere/ortolano/vivandiere della proprietà) doveva passare proprio dentro casa nostra.

Fu in queste occasioni che assaggiai  qualche piccolo e saporito uovo che poi mi sarei mangiato friggendolo e qualche piccioncino che invece cucinava la mamma.
Quindi è stato come un segno del destino: nascere sotto una piccionaia e ritrovarsi a dirigere un’azienda con il più grande e famoso allevamento di piccioni d’Europa.
Con queste premesse inutile chiedermi se a me piace la carne di piccione. La reputo una delle migliori in assoluto e avendone avuto poi larga disponibilità mi sono anche dilettato a cucinarla nelle più svariate maniere.

All’epoca lavoravano nell’Azienda Agraria Meleta diverse ditte esterne ed in particolare una era addetta alla costruzione di strade, movimento terra, costruzione di fabbricati e similari. Era una bella e numerosa squadra di operai, guidata da un ingegnere che era anche il proprietario. Ovvio che tutti domandassero dei piccioni che si allevavano  e, anche a mo’ di battuta, se mai avrebbero potuto assaggiarli.

Capitò l’occasione quando l’ingegnerone mi invitò ad una cena per una gara a chi mangiava più zuppa di pane con le verdure. Il gioco si svolgeva così: aveva due squadre di operai a lavorare nell’azienda e venivano chiamate per sfidarsi a chi mangiava di più. Prima di mettersi a tavola in mezzo alla sala c’era una bascula dove si pesava il totale dei piatti con la zuppa di ciascuna squadra. Ogni concorrente mangiava fino al proprio limite riprendendo nel caso due, tre o più volte la razione il cui peso veniva ovviamente sommato al peso iniziale.  Chiaro che vinceva la squadra che aveva mangiato più zuppa. Non vi meravigliate, perché almeno da noi in queste occasioni si fa anche di peggio.

Fatto sta che mi invitarono, ma con l’impegno che avrei cucinato i piccioni per loro.

I nostri piccioni avevano un peso variabile dai 350 ai 500 grammi e oltre una volta macellati, spennati, eviscerati e pronti per la spedizione. I piccioni di oltre 500 grammi erano richiesti dai grandi chef perché così potevano lavorare agevolmente anche solo i petti.

Ovvio che per quell’occasione, viste le bocche in gioco e la ricetta che volevo fare scelsi quelli più pesanti. Siccome mi dissero che c’era un piccolo forno a legna optai per una ricetta che avevo messo a punto proprio sul mio gusto personale. Brevemente, si trattava di fare un piccione arrosto al cui interno mettevo due o tre foglie di alloro a foderare l’alloggio per un fegatello di maiale che avvolto nella sua ratta (o rete che dir si voglia) veniva cotto dentro il piccione. Ovviamente ci voleva anche sale, pepe salvia ed aglio quanto bastava. Il gioco della dolcezza della carne, della speziatura dell’alloro e di nuovo il dolce del fegatello con i semi di finocchio, il tutto avvolto da una pelle croccante,  risultava nel piatto come una sinfonia incantevole. Non c’era da prevedere nemmeno un contorno perché qualsiasi altra cosa avrebbe potuto disturbare quel mirabile concerto di sapori.

Con quel forno io avevo poca dimestichezza, ma quella sera lavorò alla grande: una bella rosolatura esterna ed una cottura dolce all’interno quando misi il teglione con i piccioni sulla porta del forno, a mezzo calore per terminare la cottura.
Questa ricetta l’avevo già sperimentata, a me piaceva assai, ma riusciva a  conquistare molti altri, specie se golosi.
Quella sera i reduci dalla strippata di zuppa di pane non so quanto degustarono il piccione, ma mangiare lo mangiarono e con grande soddisfazione. Io non avevo naturalmente partecipato alla gara e come me un signore distino che mi avevano presentato e che io come al solito non capii chi era già mentre me lo dicevano.

Quando ci mettemmo a tavola per mangiare tutti, chi più chi meno, vocianti per virtù enoiche e conviviali, notai che il distinto signore lavorava a due mani e concentrato con serietà e passione sul suo piccione. Lo guardai meglio perché era un quadretto: capelli biondi e ondulati, viso sottolineato da vaporosi baffi e sguardo triste – con le sopracciglia a V rovesciata, pareva il nipote biondo di Einstein. Mangiava con una devozione quasi commovente, pareva non sentire e non vedere nessuno intorno a se tanto era concentrato nella golosa operazione. Se alzava gli occhi dal piatto aveva uno sguardo smarrito e stralunato, proprio come Einstein in certe foto.

Appena finito di mangiare si crearono dei capannelli per fare la rivincita a carte dopo la gara della zuppa.

Rimanemmo fuori io e Einstein che, finito il suo piccione restava immobile seduto sulla panca della tavolata, con l’imperturbabile faccia un po’ meno triste ma sempre come ipnotizzato. Per educazione mi venne voglia di dirgli qualcosa, così per rompere il ghiaccio e fare due parole. Gli andai di fronte, mi guardò con due occhioni da cocker e mi venne spontaneo dire: “Scusi vuole ancora del piccione? e lui “…..Veramente se è possibile, lo prenderei volentieri……..mi è piaciuto così tanto.” Ne aveva già mangiato uno da oltre mezzo chilo più il fegatello che c’era dentro……….Felice di aver involontariamente offerto proprio quello che desiderava andai a prendere un’altra razione di piccione con tanto di fegatello e glielo portai. Lui, quasi a scusarsi con voce commossa mi disse “Sa, io un piccione così buono non l’avevo mai mangiato”. E con garbo rimise la testa giù e calmo e metodico si mise all’opera con il solito passo da fondista, spolverando di nuovo il tutto. 

Con la solita calma, dopo, si presentò dicendomi che era il direttore generale di una importante banca del nostro territorio.
Banchiere o no, il piccione di Meleta aveva colpito ancora.

 

Roberto Tonini

Nato nella Maremma più profonda, diciamo pure in mezzo al padule ancora da bonificare, in una comunità ricca di personaggi, animali, erbe, fiori e frutti, vivendo come un piccolo animale, ho avuto però la fortuna di sviluppare più di altri olfatto e gusto. La curiosità che fortunatamente non mi ha mai abbandonato ha fatto il resto. Scoperti olio e vino in tenera età sono diventati i miei migliori compagni della vita. Anche il lavoro mi ha fatto incrociare quello che si può mangiare e bere. Scopro che mi piace raccontare le mie cose, così come a mio nonno. Carlo mi ha invitato a scrivere qualche ricordo che avesse a che fare con il mangiare ed il bere. Così sono entrato in questa fantastica brigata di persone che lo fanno con mestiere, infinita passione e ottimi risultati. 


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