I gustosi viaggi in treno con Nonno Francesco4 min read

Mio nonno Francesco era un tipo molto semplice, nell’animo e nel mangiare, ma questo non significa che fosse banale. Classe 1892 aveva fatto la prima guerra mondiale in artiglieria e rimase sordo per lo scoppio di qualcosa lì vicino a lui. Prima pensione.

Aveva fatto anche una scuola per “conduttore di macchine a vapore” che a quei tempi poteva equivalere ad un brevetto di elicottero oggi, o giù di li. Entrò in ferrovia a Pisa appena finita la guerra. Poi per ragioni politiche fu “dimesso” e venne in Maremma. Rientrò in ferrovia a Grosseto alla fine della seconda guerra mondiale. Seconda pensione.

In Maremma lavorò in una fattoria come capo officina: terza pensione.

Ma durante il passaggio del fronte un soldato tedesco volle lasciargli il ricordo di una pallottola che gli entrò poco sopra l’appendicite e usci da una mela (natica). Quarta e ultima pensione.

 Forse a sottolineare il suo carattere bonario si beccò il soprannome de “il frate”. Non credo che volesse essere un complimento, ma chi glielo mise non poteva certo immaginare di aver colto un aspetto nascosto e quanto mai importante di mio nonno. Sì, perché lui, come i frati, sapeva trovare certi posti e certe specialità, che avevano per me qualcosa di magico. Come i frati quando vanno a cercarsi un posto per farci un monastero e poi coltivarci celestiali orti.

Mio nonno a tavola amava dei piatti che mia nonna Stella ben conosceva e che eseguiva con una maestria che solo chi è cresciuto all’epoca in cui si era vegetariani per necessità, e non per altri e futili motivi, riesce a farli con tali eccelsi risultati. Fra le tante cose che cucinava ricordo in particolare una fettina nel padellino di alluminio (doppia cottura e partenza con olio freddo!) e una specie di sformato di patate, ramerino e conserva (concentrato di pomodoro) fatto in una padella di ferro. Si presentava color del popone (melone).

La mattina mio nonno iniziava inevitabilmente con una grossa tazza di smalto riempita di caffè d’orzo e latte dove zuppava del pane crogiato. Mangiava lentamente aiutandosi con un cucchiaio da minestra e con una lentezza che doveva per forza significare che si voleva gustare appieno la sua colazione. Il caffè, o l’orzo, doveva essere bollente da scottarsi la bocca! Questa me l’ha trasmessa.

Ma a dimostrazione che sapeva anche di specialità extra casareccia voglio raccontarvi di due scoperte che imparai giustappunto sui 6 anni.

Essendo un ex ferroviarie aveva un libretto che gli assicurava un tot di biglietti e un tot di chilometri gratis sulle ferrovie. Per questo, io che ho vissuto la mia infanzia più con i miei nonni che con i miei genitori, ho viaggiato molto fin da quando avevo 5 o  6 anni. Per esempio in estate si prendeva il treno e si andava in ferie a Pistoia dove c’era il covo dei Tonini. A dire la verità il covo era ai Mastrilli, un piccolo sobborgo di Pistoia, sulla strada che da Candeglia va verso Santomoro. Poi da lì, a piedi, si risaliva fino al Castel dei Gai, detto brevemente  “ai Gai”, altro piccolo borgo, in alta collina. Aria fresca, bel panorama e latte fresco tutte le sere, all’imbrunire. Anche quello di capra.

Ma per arrivare a destinazione con il treno c’erano due tappe irrinunciabili e memorabili. Una era a Porcari, una piccola stazioncina in provincia di Lucca. Era sulla linea della fu “Ferrovia Maria Antonia” e sicuramente mio nonno prendeva apposta questa linea con lo scopo di passare proprio da Porcari. Alla fermata del treno si comperava al volo dal finestrino il famosissimo “gelato di Porcari” una specialità che mio nonno decantava per tutto l’anno. Costava 10 lire, e il cono non era poi così grosso. Ma era di una bontà indescrivibile. Fior di latte, sicuramente, e forse anche panna.

Altra tappa obbligata e abituale, anche più della prima perché si poteva fare sia d’estate che d’inverno, era alla stazione centrale di Firenze. A Firenze si doveva cambiar treno e nella pausa mio nonno mi portava poco fuori dalla stazione dove c’era un banchetto di trippai. E a 6 anni ho scoperto la bontà del panino con la trippa e con il lampredotto! A me toccava la trippa: calda, fumante profumata, un pizzico di sale al volo e buon appetito.

 Il lampredotto, un po’ più difficile a mangiare nel panino, lo mangiava mio nonno. Che però si sbrodolava quanto e più di me. Ma tanto la mia nonna c’era abituata e con un “Eh, poro Gianni!” sistemava e chiudeva l’argomento.

 Può un bambino maremmano essere stato più fortunato di come lo sono stato io?

 

 

Roberto Tonini

Nato nella Maremma più profonda, diciamo pure in mezzo al padule ancora da bonificare, in una comunità ricca di personaggi, animali, erbe, fiori e frutti, vivendo come un piccolo animale, ho avuto però la fortuna di sviluppare più di altri olfatto e gusto. La curiosità che fortunatamente non mi ha mai abbandonato ha fatto il resto. Scoperti olio e vino in tenera età sono diventati i miei migliori compagni della vita. Anche il lavoro mi ha fatto incrociare quello che si può mangiare e bere. Scopro che mi piace raccontare le mie cose, così come a mio nonno. Carlo mi ha invitato a scrivere qualche ricordo che avesse a che fare con il mangiare ed il bere. Così sono entrato in questa fantastica brigata di persone che lo fanno con mestiere, infinita passione e ottimi risultati. 


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