I favolosi anni sessanta3 min read

Non è l’ennesima sortita di Gianni Minà, è il decennio della prima significativa svolta nell’enologia in Maremma, come del resto in tutta Italia.

Sono gli anni in cui escono e crescono come funghi le Cantine Sociali. A Braccagni ne costruirono una nuova e grandissima che uno si chiedeva quale uva c’avrebbero portato. Astutamente fu battezzata Cantina Sociale di Montepescali, mica di Braccagni, così uno poteva pensare che il vino si faceva in collina.
Poi però furono fatte le vigne anche nel padule (nella piana paludosa n.d.r.)! Dove ti giravi e dove vedevi filari di viti.

Fu in quegli anni che arrivò l’enologo, figura prima sconosciuta, poi aberrata, poi accettata come una benedizione, e poi da ultimo fin troppo osannata.
Era l’epoca in cui si diceva che il vino (riferendosi a quello delle cantine sociali) “Li lo fanno con le bustine, io invece lo prendo dal contadino che lo fa con l’uva”.
Salvo che poco dopo i contadini cominciarono a presentarsi timorosi e circospetti “dall’egogolo”, così veniva chiamato, per dirgli: “Sa, c’è un mio amico che vorrebbe fare l’analisi di questo vino” e gli porgevano una bottiglia tutta incartata per non far vedere agli altri cosa c’era dentro. “M’ha detto anche di dirgli se ci può scrivere quello che secondo lei ci vorrebbe”. Nonostante l’egogolo capisse di chi in realtà era il vino, mangiava la foglia e diceva: “Guardi, gli dica al suo amico che deve fare questo e quest’altro: metabisolfito tot, acido citrico tot,  poi travaso, poi questo e quello, e poi se il suo amico vuole, mi riporta il campione tra un tot”.

Si deve dire però che questi erano i migliori produttori, non i peggiori, perché pur con vie traverse sentivano la necessità di cambiare qualcosa.
I peggiori erano quegl’altri, che facevano “Il vino del contadino fatto con l’uva” e che continuava ad essere un vino bevibile all’inizio e  una cosa assai meno dignitosa dopo.
“Il vino con le bustine lo sento subito io, mi fa venire un cerchio alla testa….”
Magari era il vino di uno che metteva il metabisolfito a spanne oppure a occhio, perché si vergognava a chiedere maggiori dettagli all’egogolo sull’esatta quantità e modalità di somministrazione.
Oppure: “Mai mischiare e bere nello stesso pasto un vino bianco e un vino rosso, è mal di testa assicurato!”

Ce n’è voluto di tempo, e non tutto si è sistemato. Si è dovuto attendere l’86 e lo scandalo del metanolo per avere la svolta decisiva. Ma questa è un’altra storia.

Nel frattempo le vigne con le rese fino a 300 quintali  per ettaro furono espiantate e si cercò di fare il vino come si deve. Furono stavolta dati i premi alle vigne che venivano espiantate quando una ventina di anni prima i premi erano stati dati per impiantarle. E le cantine sociali più marginali chiusero una dopo l’altra.

Come per altre zone anche più blasonate si è dovuto aspettare che venisse qualcuno da fuori a dare le buone norme per migliorare.

Si cominciò con il Morellino di Scansano, il primo maremmano a farsi un nome in tutta Italia come vino della Maremma. Un bel passo in avanti: la prima DOC (da uve rosse) della provincia, quello che a me pare un vino molto buono anche se con poca tipicità, nel senso che difficilmente sono paragonabili due vini della stessa zona DOC. Forse per la vastità e la diversità della zona: basta pensare che si va dalle alte colline di Scansano fino a quelle dolci dell’Alberese, quasi in riva al mare……….qualcosa ci dovrà pur essere di diverso. 

 

Roberto Tonini

Nato nella Maremma più profonda, diciamo pure in mezzo al padule ancora da bonificare, in una comunità ricca di personaggi, animali, erbe, fiori e frutti, vivendo come un piccolo animale, ho avuto però la fortuna di sviluppare più di altri olfatto e gusto. La curiosità che fortunatamente non mi ha mai abbandonato ha fatto il resto. Scoperti olio e vino in tenera età sono diventati i miei migliori compagni della vita. Anche il lavoro mi ha fatto incrociare quello che si può mangiare e bere. Scopro che mi piace raccontare le mie cose, così come a mio nonno. Carlo mi ha invitato a scrivere qualche ricordo che avesse a che fare con il mangiare ed il bere. Così sono entrato in questa fantastica brigata di persone che lo fanno con mestiere, infinita passione e ottimi risultati. 


ARGOMENTI PRINCIPALI



0 responses to “I favolosi anni sessanta3 min read

  1. Che bella testimonianza, mi sono venute le lacrime agli occhi!
    Negli anni sessanta scorrazzavo in bicicletta nella pineta di Principina a mare e me lo ricordo bene il vino che si andava ad assaggiare dal contadino di turno, in barba alla minore età . Altro che temperatura controllata, faceva un caldo bestia, c’erano delle botti o delle vasche di cemento di dubbissima pulizia, mosconi extra large e linguaggio colorito che accompagnava gli assaggi.
    Ogni tanto avvisavano che sarebbe passata la “disinfestazione”, per cui ragazzini a casa e persiane chiuse. Giravano in due, senza mascherina, su un trabiccolo che innaffiava di una mistura bianca tutta la macchia e l’unica raccomandazione materna per i giorni successivi era “non leccate le foglie!”.
    Come Cantina Sociale mi ricordo quella di Monteregio che allora a noi sembrava avveniristica. Alla fine delle vacanze andavamo a comprare il vino in damigiana per portarlo e imbottigliarlo in città .
    Mi ricordo anche, e parlo già  degli anni settanta, che il nome Biondi Santi era conosciuto più perché faceva le vacanze a Roccamare che per il Brunello.
    Anni luce, ma mi fa tanto piacere che ancora qualcuno ne scriva, perché chi ha ricevuto l’imprinting dalla Maremma se lo porta dietro tutta la vita.

  2. Riguardo alle foglie da non leccare mi viene da pensare a quanti anticorpi abbiamo che i nostri figli, purtroppo, non hanno.
    Ho visto molto da vicino (eufemismo) in Sicilia fare i trattamenti sugli alberelli con il rame e lo zolfo messo dentro ad una specie di straccio che veniva sbattuto sulla pianta, creando una perfida nuvoletta. Anche lଠi contadini erano adeguatamente protetti….con un paio di vecchi occhiali da motociclisti…

  3. E’ sempre un piacere leggerti. Le tue testimonianze correlate da una saggia esperienza arricchiscono l’anima e la mente. Grazie……come sempre!

  4. La prima volta che vidi la cantina sociale di Montepescali era l’ anno 1960 circa, abitavo al deposito di Versegge e andavo a scuola con il treno da Braccagni (Montepescali scalo), un freddo di mattina, i pantaloni erano corti e il grembiule nero aveva preso le forme del ginocchio. la cantina sociale era accanto all’edificio della Braima (ora c’è un suopermaket del giardinaggio), il vino rosso era sui 10 gradi alcolici, bevibile senza le pretese di quelli strutturati di oggi, l’ etichetta era modesta, il vino bianco non aveva profumi, buono quando era freddissimo, amaro quando a temperatura ambiente; era di modesto trebbiano senza il dolce della malvasia; comunque il peggior vino del contadino è sempre il miglior vino di genuinità , nel senso che il vino si rinnova ogni anno e quindi quello di oggi è meglio di ieri. Con l’ enolgo il vino ha perso quella nota vinosa del contadino, ha assunto una livrea aristocratica per meditare in compagnia con cibi mirati e di fantasia, ci sto, però l’ aristocrazia va rinnovata ogni 3 anni max, altrimenti di vino e’senebevepoco!!! Ricordiamoci che in dosi sobrie il vino è antiossidante, perchè contiene il resveratrolo nella buccia dell’ acino d’uva rossa; so che ti piacciono i bianchi e le bollicine, ma il mix oculato fa bene ai sensi, e questa tua vena letteraria è il sesto senso, di gioventù!!!

  5. Ma che belle storie Roberto !
    Una più bella dell’altra !
    Sembra di stare in vegliatura …

  6. Pizzicato a rubare l’uva! Un carissimo amico mi segnala che la prima DOC della provincia di Grosseto è quella del Bianco di Pitigliano DOC Istituita con decreto del 28/03/1966 Gazzetta Ufficiale del 30/05/1966, mentre il Morellino di Scansano (oggi DOCG) era divenuto DOC con DPR 06/01/1978, cioè ben dodici anni dopo. Da aggiungere che la DOC Bianco di Pitigliano è addirittura uno delle prime DOC di tutta Italia.
    Ringrazio il carissimo amico che conoscevo come uno dei migliori cantanti chitarristi dell’epoca dei Beatles nel gruppo I Selvaggi e oggi conosco invece come attento lettore delle cose di vino.
    Grazie Alfiero.

  7. Uno dei primi ” egogoli ” arrivati in Maremma venne ad abitare nell’appartamento accanto al nostro , in piazza Volturno a Grosseto .
    Che la moglie fosse venuta a fare la professoressa in una scuola media lo capimmo bene , ma quel che era venuto a fare lui alla cantina sociale di Marina rimase a lungo un mistero .
    ” E’ un mestiere nuovo – precisava il mio babbo che per l’appunto faceva l’autista all’Ente Maremma – ma di che si tratti di preciso non lo saprei dire . ”
    Anche noi, modestissimi bevitori di vino , guardammo a lungo con sospetto questo vicino ed immaginammo magie , intrugli ed alambicchi fumanti da cui doveva uscire un misterioso liquido che poco aveva a che fare con l’uva .
    Stessi sospetti con la zia di Pitigliano che si fidava poco di quello che usciva dai sistemi della moderna cantina e continuava a recarsi con la piccola brocca nell’antro di tufo , umido e profumato , del contadino che da una vita garantiva la genuità  di quel nettare .
    Pare davvero di raccontar novelle ….
    Grazie a Roberto che ci permette di ritornar bambini !!

  8. Mi assumo il 50% di colpa sulla DOC del Morellino in quanto direttore, pseudo esperto di vini e della loro storia. Correggeremo l’articolo di Roberto inserendo “prima DOC in rosso”. Ci scusiamo con i lettori, anche se sbagliando s’impara e noi abbiamo imparato quale è la prima DOC maremmana in assoluto e la prima da uve rosse.

  9. il Granocchiaio mi ha già  ‘barcocchiato ‘ ben bene in materia di vino, io difendo il vino fatto ‘in casa’, lui insiste a definirlo vino del contadino che dura il tempo giusto per far l’aceto, cioè non arriva a primavera… (ha ragione come si può negare l’evidenza), ma c’è un equivoco di fondo nella nostra discussione, che in questo luogo di intenditori veri di vino vorrei risolvere.
    Caro Granocchiaio, io non difendo il vino del contadino in se per se, io difendo il vino di chi se lo fa da solo, perchè lo ritengo il risultato ultimo di un modo di vivere, e il bicchiere di vino che poi chi se lo è fatto da solo beve a pranzo e a cena, è un condensato di vita e sensazioni che diventano un rito vero e proprio… una vera e propria eucarestia con la terra. A me piaciono i vini ‘compri’ come si dice da noi, quelli strutturati e formati dall’abilità  e la genialità  dell’enologo abinata alle tecnologie più avanzate della cantina in cui lavora, penso alle tecniche non invasive e al sapiente utilizzo di muffe, penso alle tecniche del freddo, alla pulizia estrema.
    Non nascondo che ogni tanto qualche bottiglia cara la compro e come mi ha insegnato il Granocchiao dico a me stesso, invece di spedere cinquanta euro a settimana per comprare sette bottiglie, ne compro una sola e bevo di meno ma meglio (che poi si beve bene anche spendendo 7-8 euro a bottiglia).
    Ma il valore del bere il vino che uno fa da solo, dopo aver magari piantato la vigna, averla coltivata tutto l’anno, curata, carezzata con le mani e con lo sguardo, poi la vendemmia e la svinatura… ed infine il bicchiere del ‘sangue della terra’ e il suo sapore in bocca… sono cose che hanno un valore diverso, sono un rito che non tutti comprendono, ma che fa, di chi ancora riesce a seguirlo, un vero sacerdote di una religione del buon vivere nel rispetto della terra, che mi dispiace, ma io continuerò sempre a rispettare…
    Si è vero, quel vino poi a primavera tende a ‘cambiare’ a ‘girare’ e inevitabilmete il sapore della terra diventa aspro, poi con lo ‘spunto’… infine ci si fa meglio a condire una buona insalata… ma se anche quella è dell’orto di chi ha fatto il vino con il proprio lavoro, o di quella naturale di campo, allora tutto si chiude e il rito diventa perfetto, ed io mi ci inginocchio davanti a chi vive cosà¬; mentre a chi fa del vino buono con la tecnologia e pagando un bravo enologo, io al massimo gli riconosco la bravura nel proprio lavoro e li ripago spendendo qualche soldo in più quando posso permettermelo, per comprare il loro vino, che mi da si sensazioni belle, ma non profonde come quelle del ‘sacerdote’ come lo era mio padre.

  10. Quando negli anni 70 sono entrato a far parte del mondo del vino come venditore diretto di aziende produtrici, durante le visite in cantina e altrettante riunioni attinenti la conoscienza della materia a noi utile per argomentare ogni singolo vino ai nostri clienti per la maggior parte ristoratori, ho cominciato a capire la differenza tra il vino del contadino e quello delle fattorie produttrici. poi con Roberto mi ricordo che facemmo anche il corso da (Sommelier) se vogliamo abusare di questo termine.All’ora ,come dicevano i Dottori enologi,il vino è come un bambino,che va seguito dalla nascita e curato (anche con tecnologie moderne) se ce ne fosse bisogno, fino a quando è cresciuto e maturato in modo da arrivare in tavola più sano e gustoso possibile. Mi ricordo di un conosciente, a dire la verità , anche un po improvvisato viticoltore mi diceva che lui nel vino non ci metteva niente, perciò genuino.Ma come dice il Granocchiaio, quel vino genuino non vuol dire buono,perche lo facevano fermentare con i raspi e non si strozzava dal sapore aspro e il vino bianco lo tenevano nelle bucce per tanti giorni, non sapendo che a differenza del rosso le bucce dell’uva bianca contengono piuttosto sostanze nocive. Poi l’avvento delle aziende storiche a scansano hanno contribuito a migliorare la qulità  e la diffusione del morellino in tutta l’Italia ed all’estero, anche se è vero che per esigenze di mercato si è uniformato il gusto, e di morellini tipici non sono rimsti molti.
    Un salutone a Roberto e tutti gli altri amici.
    Motorino.

  11. Nel 1990 lavoravo in un mega campeggio vicino a Marina di Grosseto, con grande stupore in un magazzino trovai un centinaio di fiaschi di vini bianco della cantina di Montepescali che da anni era chiusa, convinsi il riottoso gestore del supermarket interno a rimetterli in vendita e furono quasi fulminate in una setimana da una trentina di ragazzotti/e olandesi che non andavano troppo per il sottile in fatto di alcol in genere.
    Di certo non era di qualità , per forza, i soci di allora producevano almeno 150 qli di uva ad ettaro! Non credo che ci fosse enologo in grado di fare alcunchè per riuscire a fare un vino decente, almeno per gli standrd di oggi.

  12. A proposito del vino prodotto della Cantina Sociale di Montepescali. Ricordo ancora che erano state piantate vigne dappertutto, anche nei territori ex palude, tanto per darsi un’idea. La qualità  non era eccelsa, anzi. Però era pur un primo passo. Ricordo che una volta parlandone con il noto ristoratore di Punta Ala, il popolare e bravo Pietro dell’omonimo locale, mi disse che secondo lui era un peccato aver speso tutto quel mare di soldi per fare una Cantina cosଠbella e cosଠgrande. Per non parlare dei vigneti. E ancor meno dei contributi dati per fare impianti di vigneti (e poi i contributi per espiantare). Gli chiesi ingenuamente se almeno il bianco poteva essere utilizzato in cucina per sfumare le preparazioni. E lui con paterna indulgenza mi disse: guarda che per sfumare i cibi ci vogliono i vini buoni, mica le ciofeche! L’enologo in quelle condizioni giocava tutto in difesa cercando di fare un vino bevibile, e un po’ ci riuscà¬, ma niente di più. Le vigne dopo nemmeno vent’anni erano già  tutte spiantate. La Cantina Sociale è stata smantellata ”“ con pena e tanti soldi ”“ da un paio di anni. Ora c’è un enorme magazzino per la vendita di prodotti per l’edilizia.

  13. Ma li mortacci vostri e di tutti i produttori! se c’era muSSOLINI ….

LEGGI ANCHE