Una vecchia battuta recita che “Una denominazione d’origine garantisce tutto fuori che la qualità di un vino”. In realtà, per molte denominazioni italiane, dove produttori e organi consortili stanno facendo grandi sforzi per innalzare la qualità e promuovere il marchio, questa frase oggi si trasforma in “Una DOC garantisce tutto fuori che un prezzo minimo del vino”.
In tempi di Covid-19, con le cantine piene e il mercato che ristagna è quasi logico per tanti vendere o meglio svendere il vino alla grande distribuzione o a imbottigliatori che poi lo piazzeranno a prezzi da realizzo. Del resto se si va a guardare l’export del vino italiano una grande fetta è di prodotti in cisterna o comunque di bottiglie proposte attorno a 1 euro.
Spesso si risponde semplicemente che “il mercato detta legge” però non credo che, almeno per quanto riguarda tante DOC e DOCG con alti profili qualitativi questa scusa possa essere ancora valida.
La scelta di stare in un DOC o in una DOCG per molti produttori non solo è scontata ma fa parte del loro mondo, di quanto gli sta attorno, della campagna che lo circonda. Questo è sicuramente lodevole ma DOC o DOCG non sono (giustamente) gratis, però dietro un esborso ci deve sempre essere un servizio reso, dietro i costi della fascetta e dell’erga omnes ci devono essere delle garanzie.
In questo momento garanzie e servizi possono passare attraverso promozioni del marchio ma soprattutto un marchio si salvaguarda se il prezzo a cui è venduto viene mantenuto stabile.
Per questo non è più ammissibile trovare certi prezzi nella GDO senza che i consorzi di tutela non muovano nemmeno un dito.
Se l’azienda Pinco, che di solito vende a 10, ha dei problemi e purtroppo deve o vuole svendere a 4 sono affari suoi, che diventano però affari di tutti se il prodotto di Pinco ha un marchio che è utilizzato da molti altri e soprattutto se questo marchio rappresenta un territorio. Svendere una DOC o una DOCG alla fine è svendere il territorio in cui viene prodotta.
Per questo sarebbe l’ora che DOC e DOCG, partendo da un prezzo minimo concordato vigilassero seriamente, sanzionando chi vende (a rivenditori, ad altri produttori/imbottigliatori, a catene GDO) sotto a quel prezzo.
Altrimenti è inutile riempirsi la bocca con fatto che il sistema delle DOC è la spina dorsale del vino italiano se poi deve sostenere un corpo non adatto, che non gli permette di camminare. Potrei fare decine di esempi, ma basta entrare in un supermercato per vedere la realtà con i propri occhi.
Visto che difficilmente cambieranno le cose voglio fare una proposta molto provocatoria che, in un certo senso, riprende la normativa attuale “esasperandola” un po’.
Detta in pochissime parole: I vini, soprattutto DOC e DOCG, sotto ad un certo prezzo di vendita al consumatore finale (che può variare da zona a zona, da momento a momento) non dovrebbero nemmeno chiamarsi VINO!
Il vino è un prodotto dell’agricoltura che deve avere un suo preciso valore: se non ce l’ha allora non è vino: è un prodotto alcolico, una bevanda alcolica, un qualcosa che si può bere, ma non è VINO e non può riportare in etichetta questa parola.
Come un vino che va in distillazione , una volta diventato alcol non riporta la dicitura “Alcol ottenuto da vino X della zona Y” così il vino sotto un certo prezzo non si merita, per rispetto verso tutti gli altri produttori, di chiamarsi VINO. Se poi il vino è DOC o DOCG dovrebbe almeno perdere la possibilità di fregiarsi della denominazione, perché il rischio è appunto quello di indebolire un territorio.
Se tanto vino venduto e svenduto perdesse automaticamente il suo nome, quello che rimane assumere “de facto” uno status e un valore diverso, più alto.
Se la proposta è troppo scioccante e di difficile attuazione allora basterebbe che DOC e DOCG vigilassero e eventualmente punissero non tanto chi è magari costretto a vendere a certi prezzi, ma chi se ne approfitta e spesso sputtana un marchio e un territorio.