<<Non posso fare a meno di supporre la realtà, di rivedere ogni giorno quegli occhi grandi e improvvisi, di nutrirmi di quell’intelligenza selvaggia, di recuperare quelle carezze perdute>>.
Ogni libro possiede un timbro, un colore, un atteggiamento. A volte è difficile coglierlo subito. Certe letture bisogna guadagnarsele con pazienza. Come nel caso di È un vino paesaggio della giornalista triestina Simonetta Lorigliola, pubblicato di recente da Derive Approdi (192 pagine, 15 euro).
I primi battiti sembrano dare l’abbrivio a l’ennesimo manifesto per un’agricoltura sostenibile, e allo stesso tempo lasciano intendere un’opera in cui si riaffaccia – con accento furlan – la nozione di terroir, che per quanto mi riguarda risulta essere sempre più abusata e banalizzata.
Ma a un tratto qualcosa di più bello, di più universale, di imprevedibilmente vorticoso prende il lettore e lo frulla dentro un magma di racconti fuori da ogni retorica, in cui si seguono le vite, le esperienze, le riflessioni e le emozioni di Lorenzo Mocchiutti e Federica Magrini, titolari dell’azienda agricola Vignai da Duline (San Giovanni al Natisone, Udine, Friuli).
Si può scrivere una biografia in tanti modi, Simonetta Lorigliola lo fa dal punto di vista di una scrittrice molto capace e di una donna altrettanto curiosa, avida di memorie, di radici e di ponti che mettano in collegamento la provincia udinese con l’immensità del pianeta; che partendo da Duline attraversino il mondo, in un perenne moto a luogo.
C’è così tanta lucidità in quest’opera che verrebbe voglia di indicarla con una freccia, facendo magari anche un disegno, a tutti quelli che si ostinano a parlare di vino in modo seriale, automatico, come se non fosse invece doveroso uscire dai soffocanti confini settoriali e dalle parole svuotate di ogni significato, per aprirsi al prossimo. E c’è anche una felice dose di fantasia, ma spalmata su una solida fetta di pane, come suggerisce Calvino.
Simonetta ha vieppiù strapazzato qualsiasi ipotesi di genere: È un vino paesaggio non si sa se è il lavoro di una biografa, di una narratrice, di una cronista o di una saggista. Quel che si capisce è che la sua scrittura apparentemente “disfunzionale” funziona invece alla perfezione, intrecciando viticoltura, enologia, ambiente, musica, amore, natura, etica e sociale, uomini e donne, vigne antiche e vini senza tempo, sovesci e trasemine, api ed erba medica, gelsi bianchi e gelsi neri, chiome integrali e mucche verdi, portainnesti antichi e siepi avanguardiste, osmizze vere e presunte, Fukuoka e Steiner, Soldati e Veronelli, in un coro polifonico, <<enoico e immaginativo>>, che è poco cronologico ma assolutamente contemporaneo.
In più, Simonetta ha scritto una storia di tutti e per tutti, non solo per gli addetti ai lavori; ha concepito un libro che mentre lo leggiamo, ci legge, passaggio che appartiene solo alle migliori esperienze narrative. Un libro che si sente in dovere di porci interrogativi profondi, lasciando le risposte a ogni singolo fruitore, che deve sentirsi incentivato a trarne un contributo forte, a migliorare se stesso e la società in cui trascorre il suo tempo. Anche bevendo un calice di buon vino.
Ed è buono, molto buono, il vino che Lorenzo e Federica producono tra San Giovanni al Natisone e Manzano, tra la pianura di Duline e le balze collinari e boschive di Ronco Pitotti, di qua e di là del Judrio.
L’intera gamma dei Vignai raccoglie bottiglie di rarissima intensità, originalità e carattere, ottenute da vinificazioni in legno per singole parcelle, senza controllo delle temperature, con un apporto di solforosa ridotto all’essenziale. Vini che si spossessano della propria identità varietale per lasciare che la geografia se ne appropri.
Ma se i produttori sono ormai noti ai bevitori più colti, Federica e Lorenzo li conosciamo qui soprattutto come artigiani radicali, in grado di mettere in connessione mano e testa, di aprire un dialogo costante tra le pratiche concrete e il pensiero.
Da queste pagine impariamo anche a capire meglio cosa significhi essere vignaioli liberi e indipendenti, lontani dalla prigionia degli slogan apocalittici tra chi è dentro o fuori il movimento del vino naturale.

Di slogan non ne abbiamo più bisogno, ora è il tempo dell’intelligenza e della sensibilità, del fare pensando e del pensare facendo.
Impronte che queste pagine ci restituiscono senza inciampi, permettendo al libro di volare in alto, là dove primeggia la civiltà delle idee, là dove il paesaggio è vita prima ancora che vino.