Degustazioni Verdicchio: di anice e di agrumi6 min read

Parafrasando il bel libro di Nico Orengo, intitolato “Di viole e liquirizia”, ambientato nella promised land del vino italiano, ovvero quelle Langhe che stanno nel cuore di tutti gli appassionati enofili, viene da dire che la attuale situazione del Verdicchio dei Castelli di Jesi e del Verdicchio di Matelica (o quantomeno per quella parte dei produttori che lavora per la qualità) sia appetibile e piacevole quanto il profumo di anice e agrumi. Che sono poi, ma era sicuramente chiaro, alcuni dei descrittori classici del vitigno verdicchio.
Una situazione qualitativa più che soddisfacente insomma, che pone le due denominazioni ai vertici nazionali, come dimostrato (ma non era la prima volta) dalla degustazione effettuata a metà Giugno, in cui si alternavano i vini del 2003, 2004 e 2005.
Ma vediamo il responso, scendendo nei particolari.
2005: stando agli assaggi effettuati (assolutamente incompleti), la sensazione è che si tratti di una annata media, ma nulla più. I vini infatti presentano belle sensazioni floreali al naso (ma latita il fruttato) ed una buona freschezza gustativa, ma una lieve carenza di struttura, soprattutto nel finale di bocca. La differenziazione tra i vini base e le selezioni non sembra netta come altre volte. I buoni vini non mancano, ma quasi nessuno raggiunge i vertici del 2004. Da ora al 2008 per i vini più semplici, fino al 2010 per le selezioni.
2004: sicuramente la migliore della triade, e a nostro avviso una delle migliori annate degli ultimi anni (magari con 2001, 1999 e 1996). I vini conciliano freschezza, frutto (ananas immaturo, albicocca) e struttura. Le selezioni – che per il Verdicchio dei Castelli di Jesi ricadono quasi sempre nelle tipologie “classico superiore” e, più raramente, “classico riserva”, e per il Verdicchio di Matelica si identificano quasi del tutto con la tipologia “riserva” – sono già ottime, ma la capicità di invecchiamento, e quel che più conta di miglioramento in bottiglia, sembrano incoraggianti. Da ora al 2009 per i vini semplici, almeno fino al 2012 per le selezioni.
2003: ormai lo sanno anche i piccioni (anzi forse loro lo sanno meglio di noi….): l’annata è stata torrida, e i vini ovviamente rispecchiano, come sacrosanto, l’andamento meteorologico. Vini larghi e avvolgenti, poco profondi, evoluti – ma non ossidati – al naso, con note di paglia, fieno e fiori gialli, da bere ora. Anche le riserve, che sovente presentano un attacco di bocca quasi abboccato che personalmente non ci fa strappare i capelli dalla testa, non sembrano possedere il fiato per lunghe traversate. Ma la prudenza col verdicchio è d’obbligo: per esperienza personale, vi garantiamo che vini base di annate medie (ma solo dei produttori migliori) sono buonissimi anche dopo 5 anni, e le selezioni più famose arrivano a compiere i dieci anni di età con grande vitalità.
A zonzo tra Jesi e Matelica.
Le due denominazioni, ovvero Verdicchio dei Castelli di Jesi e Verdicchio di Matelica, propongono vini leggermente differenti, ma poi non più di tanto.
Anche se sappiamo bene che in tutti i testi sacri è scritto che il Verdicchio dei Castelli di Jesi è più morbido, più piacevole, di più rapida evoluzione, mentre quello di Matelica più austero e longevo, vi garantiamo che non è così. Almeno non esattamente.
Non è affatto vero che il Verdicchio di Matelica sia più longevo di quello di Jesi.
E questo non perché quello di Matelica non sia longevo, ma perché è quello di Jesi ad avere capacità di invecchiamento notevolissime.
Una magnum di Verdicchio dei Castelli di Jesi classico riserva Serra Fiorese 1988 di Garofoli, bevuta nel 2000, era tranquillamente paragonabile ad uno Chablis 1er Cru o ad un Puligny Montrachet 1er Cru di quelli buoni buoni.
Era talmente buona che a distanza di 6 anni la ricordiamo ancora perfettamente.
Lo scorso anno Natalino Crognaletti, titolare della Fattoria San Lorenzo, ci ha stappato un Verdicchio dei Castelli di Jesi solo “classico” (dunque né “superiore” né “riserva”) che alla cieca reputavamo della metà degli anni ’90.
Peccato (anzi, per fortuna) fosse del 1984.
Ma potremmo andare avanti con moltissimi altri esempi, spaziando dal Cuprese di Colonnara al Verde di Cà Ruptae di Moncaro, dal San Michele di Bonci fino alla riserva Villa Bucci di Ampelio Bucci,di cui tutte le annate degli anni ’80 sono tuttora eccellenti.
Tornando al distinguo tra Jesi e Matelica, è vero invece che il Verdicchio di Matelica impiega più tempo a definirsi. A Matelica la nota di agrumi sembra più intensa, e l’anice si trasforma in un piacevolissimo tono – austero – di mandorle amare.
Ma anche a Jesi si può trovare austerità. I vini della riva destra del fiume Esino, ed in particolare quelli di Cupramontana e della piccola zona che ricade nella provincia di Macerata, hanno un profilo gustativo “vibrante” e succulento, mentre quelli della riva sinistra sono particolarmente floreali e l’amarognolo si affievolisce.
Chi guarda al Verdicchio con sospetto, dovrebbe secondo noi iniziare a conoscerlo proprio da questi ultimi.
Ok, ma cosa e quando  bere?
I Verdicchio dei Castelli di Jesi base andrebbero bevuti almeno dopo un anno dalla vendemmia (e quindi questa estate sarebbe meglio bere i 2004), mentre i Matelica di pari livello dovrebbero essere lasciati in pace fino alla terza estate dopo la vendemmia (e quindi ora l’ideale sarebbe stappare i 2003).
Tornando a Jesi, le selezioni in acciaio, che a nostro personalissimo avviso sono le più interessanti, ricadono quasi sempre nella tipologia “classico superiore”, mentre quelle in legno sono quasi sempre “classico riserva”.
E i prezzi?
Tra il favorevole ed il corretto per i base e le selezioni in acciaio, corrette e molto raramente sconvenienti le selezioni in legno.
E le note dolenti?
Chiaramente ci sono, come in tutte le denominazioni, anche le più importanti.
Prima fra tutte, anche se ultimissimamente si tratta di un problema sempre più raro, c’è la questione del residuo zuccherino. Può capitare infatti di andare in enoteca a comprare un vino da abbinare ad un rombo, e ritrovarsi invece con qualcosa più adatto ad accompagnare una fetta di gorgonzola. Si tratta dei verdicchio ottenuti con uve vendemmiate tardivamente (terreno peraltro su cui i margini di miglioramento sembrano enormi), e che presentano un filo (o una matassa…) di residuo zuccherino.
Giova sottolineare che il problema è esclusivo delle selezioni, occhio dunque a leggere sempre le retroetichette!
Ad onor del vero ricordatevi che però questo problema a Matelica non esiste.
In secondo luogo, ma non vorremmo sconfinare in un terreno proprio degli enologi, non ci sembra che la barrique doni caratteri migliorativi al verdicchio. O almeno quando il vino è giovane. Sembra cioè che il verdicchio fatichi molto a “digerire” il legno piccolo, per poi ritrovare il giusto equilibrio aromatico solo dopo molti anni di vetro (più di cinque). Forse ci sbagliamo, ma vi garantiamo che la nostra considerazione non ha nulla di prevenuto né di ideologico.
In terzo luogo manca quasi del tutto l’indicazione dei migliori vigneti (perché ovviamente ci sono) in etichetta.
Ed è proprio qui, nella comunicazione del terroir al consumatore, che queste due grandi denominazioni possiedono a nostro avviso i maggiori margini di miglioramento.
In compenso – e con questo concludiamo – il rischio di trovarsi con vini “taroccati” (profumi di kiwi, banana, frutta rossa da lieviti selezionati, ecc…) è estremamente  remoto.

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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