Dal cinquino all’impietoso: una storia di vetro7 min read

I primi bicchieri che iniziai a guardare con un certo interesse erano i bicchieri che stazionavano in qualche angolo nella cantina di vinificazione della fattoria. Là dove sentii per la prima volta i profumi di mosto in fermentazione ero ammesso ogni tanto a fare piccoli assaggi di mosto e poi di vino appena fatto. Rimasi colpito dal fatto che nessuno puliva il bicchiere, al massimo una sciacquatina con il vino, e così facendo rimaneva sempre un po’ di liquido nelle pareti del bicchiere, fino a formare una velatura, e cioè la famosa camicia.

La sciacquatura del bicchiere andava a rifinire a terra, tanto da far venire la camicia anche alla cantina. Non facevo troppo caso alla forma, ma sicuramente erano bicchieri piccoli e senza piede.

In casa invece cercavo i bicchieri più grandi e alti perché ghiotto com’ero di latte ne potevo prendere di più. E siccome a quei tempi il frigo era il davanzale di una finestra, magari all’ombra o a nord, ci ritrovavo al mattino una bella dose di panna. Quella si che era una filiera corta: dalla stalla delle mucche di fattoria a casa mia c’erano meno di cento metri.

Il bicchiere per il vino, quello dei professionisti, era usato in osteria dove scorreva sui lisci marmi bianchi dei banconi e dei tavoli. Erano piccoli, senza gambo, con il culo pesante. Ritengo che contenessero 5 cl, e forse per questo il bicchierino veniva chiamato “il cinquino”. La cosa si potrebbe spiegare con il fatto che il vino veniva fornito in osteria esclusivamente sfuso e quindi servito a quartino, a mezzo litro e a litro nelle caratteristiche caraffe bollate. Con queste caraffe non era per niente facile versare e dosare la quantità.

Per il fatto stesso che erano piccolini i cinquini veniva riempiti pieni a raso. Facile immaginarsi con quanta cura e prudenza venivano poi presi in mano per essere bevuti.

Le bevute classiche erano durante le partite a carte. Tra una mano e l’altra qualcuno per tutti, o solo per se, versava con attenzione e prudenza il prezioso e odoroso vino color rubino. Ma anche violaceo.   
Erano precisioni da orefici. Bicchieri colmi a rischio di esondazione, ma non succedeva quasi mai, e concentrazione per prenderlo poi dal tavolo e portarlo alla bocca. Era per questa esigenza che i gesti erano lenti come se fossero al rallentatore: molto dipendeva dal fatto che avevano paura che ne andasse persa qualche goccia.

Ognuno aveva il suo stile, ma tutti durante questa sacra liturgia si staccavano dal mondo del gioco e del tavolino e dialogavano in esclusiva con il proprio bicchiere. Molti fissavano un punto indefinito, altri potevano guardare qualcosa o qualcuno, ma sempre con lo sguardo fisso e assente di chi pensa ad un’altra cosa avvicinando le labbra al bicchiere come per un piccolo casto ma godurioso bacio.

Pochi anche i commenti sul vino, almeno finché si trattava di bere o fare la partita.

Al momento di pagare potevano scambiare qualche battuta con l’oste, spesso per scherzare sulla dubbia qualità del vino o per la possibilità che questi l’avesse allungato con l’acqua! Ma era difficile che all’osteria non si bevesse vino buono. Quello poco buono era di regola riservato e bevuto nelle case private. Vuoi per i sistemi empirici ed approssimativi di trasporto e conservazione, vuoi perché il vino del contadino forse aveva qualche pregio, ma se c’era si teneva molto ben nascosto ed era un’impresa trovarlo.

Un bel giorno il babbo venne a casa trionfante perché aveva scoperto i bicchieri infrangibili. Erano bicchieri della Duralex, come c’era scritto sul fondo. Avevano delle sfaccettature sui lati, come delle foglie di eucalipto. Poi vidi che se cadevano si rompevano come gli altri: l’unica differenza era che andavano in mille pezzi, per cui mi è rimasta sempre dubbia l’utilità di questa  caratteristica.

Lo spumante era bevuto rigorosamente nelle coppe. Forma seducente,  suggestiva ed evocativa. Fortunatamente non era poi un’eresia perché a quei tempi bere bollicine da noi voleva dire esclusivamente bere Moscato d’Asti. I profumi seducenti e le bollicine che ti scoppiettavano nel naso era segno di perfetto matrimonio tra bicchiere e vino.

Dello champagne si leggeva o si sentiva dire alla televisione. L’approccio a questo fu poi, come per tanti come me senza preparazione, un po’ problematico. Non avendo educazione ed esempi al riguardo scoprii subito che assieme ai dolci non mi piaceva proprio. L’unica cosa che mi colpì fu un suadente e consolatorio profumo di madia e di crosta di pane e quello me lo fece sembrare subito una cosa buona. 

Ovviamente all’inizio anche lo Champagne era bevuto nelle coppe.
Finché avvenne la scoperta del nuovo mondo. Intanto si era passati dalle caraffe bollate ai fiaschi impagliati per il Chianti e vini di un certo prestigio, mentre con le Cantine sociali si affermò e diffuse il “boccione” da 1 litro e mezzo. C’erano poi delle bottiglie estrose come l’anfora per il Verdicchio o la reticella per  il Fontana Candida, e molte altre ancora. Ma chi lavorava fuori e doveva portarsi il vino da casa lo metteva nella bottiglia con il tappo a scatto che si adoperava anche per fare “l’acqua di Vichy”, come diceva la mi’ nonna.

Negli anni ’80 si diffuse su larga scala anche la bottiglia bordolese da tre quarti. Grosso modo in quei tempi il nuovo (che avanza, n.d.r.) mi  portò nel mondo di meravigliosi bicchieri e dei decanter, tutti dalle forme per me fantastiche, sicuramente belle ed affascinanti. Scoprire a cosa era adatto ogni bicchiere, verificare che quella forma lì era adatta a quel vino e l’altra ad un altro vino è stato un percorso piacevole ed appagante. In effetti da bicchiere a bicchiere da forma a forma le cose cambiavano abbastanza.

Ogni tanto apparivano bicchieri che a sentire la pubblicità o gli esperti del momento avevano delle qualità incredibili, tanto da pensare come fosse stato possibile bere quel certo prodotto se ancora non esisteva questa forma.

Molto, moltissimo, sono state le mode e la necessità di creare aspettative da parte dei fabbricanti. Spesso solo mode più o meno passeggere. Io non mi sono mai tirato indietro quando si è trattato di sperimentare nuove forme, ma piano piano ho cercato un mio personale giudizio.

Uno dei casi più noti credo sia quello della flute. Quando è scoppiata questa mania è stata una corsa a chi le faceva più stretti e lunghi. Per apprezzare meglio il perlage dicevano, ma erano di una scomodità snervante. In Francia constatai che non era così scontato il suo uso anche se erano leggermente più larghi e “umani”.

Altri invece avevano effettivamente una certa utilità, ma destinati ad un mercato da amatori. Mi riferisco per esempio all’impitoyable,  quello strano bicchiere a cono che mi fu presentato come “lo sbugiardatore” o l’”impietoso” perché avrebbe dovuto far scoprire eventuali difetti. Aveva una piccola rientranza nel fondo e una su sul lato per cui veniva preso con la punta di due dita. Dopo aver roteato adeguatamente s’infilava immediatamente il naso nella piccola bocca superiore e si inspirava a fondo. In effetti certi odori veniva esasperati, come per esempio la solforosa: era come accendersi un fiammifero dentro il naso, c’era da rimanere affumicati quando se ne trovava un pochino di più. Il limite non indifferente era che esaltava i difetti, ma non faceva risaltare i pregi!

Era abbastanza utile in cantina, ma ebbe una sua stagione forse per la novità e la sua forma inusuale, ma poi è praticamente sparito dalla circolazione.
In questo turbinio di forme e di mode mi ci sono voluti anni e anni per farmi un’idea mia al riguardo, spesso non allineata con i canoni di moda.

Con questi bicchieri venne anche la impellente necessità di imparare a roteare come faceva Veronelli e seguaci. Non fu poi così difficile.

I guai vennero dopo quando causa forse di troppe frequentazione a corsi per il vino, e quindi roteazioni a catena dei bei calici peggio di un giocoliere o di un prestigiatore, una volta a tavola mia moglie mi fece notare che stavo roteando un bicchiere con l’acqua minerale.

Roberto Tonini

Nato nella Maremma più profonda, diciamo pure in mezzo al padule ancora da bonificare, in una comunità ricca di personaggi, animali, erbe, fiori e frutti, vivendo come un piccolo animale, ho avuto però la fortuna di sviluppare più di altri olfatto e gusto. La curiosità che fortunatamente non mi ha mai abbandonato ha fatto il resto. Scoperti olio e vino in tenera età sono diventati i miei migliori compagni della vita. Anche il lavoro mi ha fatto incrociare quello che si può mangiare e bere. Scopro che mi piace raccontare le mie cose, così come a mio nonno. Carlo mi ha invitato a scrivere qualche ricordo che avesse a che fare con il mangiare ed il bere. Così sono entrato in questa fantastica brigata di persone che lo fanno con mestiere, infinita passione e ottimi risultati. 


ARGOMENTI PRINCIPALI



LEGGI ANCHE