E’ una convinzione largamente condivisa che una delle principali differenze tra i vini della Borgogna e del bordolese sia costituita dal fatto che i primi adottino un modello gerarchico fondato sulla qualità del terroir e i secondi invece sulla reputazione delle marche. Che non sia del tutto vero e comunque non sia sempre stato così in egual misura nel corso del tempo è quanto suggerisce in un suo interessante articolo apparso qualche mese fa sulla “Revue du Vin de France” Jérôme Baudouin, lo “storico” della rivista.

Generalmente il punto di partenza al quale ci si riferisce è lo storico classement napoleonico del 1855 formulato in vista dell’Exposition universelle di Parigi di quell’anno. In realtà il classement ha avuto un peso sostanziale solo dopo la seconda guerra mondiale, prevalendo sui molteplici altri che l’hanno preceduto e seguito più per il suo prestigio storico che per la sua maggiore accuratezza.
Ben prima di quello commissionato da Napoleone III erano stati quelli stilati dai courtiers a costituire il primo input per gli acquirenti.
A Bordeaux la maggior parte dei vini cominciò a essere imbottigliata presso gli Châteaux solo molto più recentemente e a dettare le regole del mercato erano appunto i courtiers e le maisons de négoce. Tra il 1745 e il 1855 vi furono almeno una ventina di classements elaborati da courtiers e négociants, e invariabilmente il criterio base non era la qualità dei vini, ma i prezzi di vendita. Ciò però non deve essere sovrastimato, giacché, già nel XVIII secolo,le grandi famiglie nobiliari come i Pontac (Haut-Brion), i Ségur, i Brane o i Rauzan investirono il loro denaro nelle migliori proprietà, che non erano affatto scelte a caso, ma proprio per ottenere la qualità migliore, e in seguito esse continuarono ad acquistare le terre vicine per ingrandire le loro proprietà, sicché i vini degli Châteaux che spuntavano i prezzi più alti erano appunto quelli che producevano i vini migliori.

Dopo quella napoleonica del 1855 seguirono almeno un’altra decina di classificazioni che non ne modificarono la sostanza. Piuttosto si comprese che i proprietari erano non meno importanti dei loro terroirs, perché, come osservava il giovane e battagliero Edouard Féret, che nel 1866, riprendendo, a soli 22 anni, la casa editrice di famiglia, e continuando l’opera di Charles Cooks, che, col suo libro “ Bordeaux et ses vins” aveva pubblicato la prima Guida ai vini di Bordeaux, in un decennio le proprietà evolvono, cambiano dimensione, talvolta progredendo, talaltra decadendo: vengono smembrate, vendute a proprietari che non investono nella stessa misura per migliorare la qualità dei loro vini, a volte scompaiono.
Dei 60 cru classé del Médoc, solo 14 hanno mantenuto l’estensione di quel tempo, conservandola stabile fino ad oggi: Margaux, Calon-Ségur, Gruaud Larose, Grand Puy-Lacoste e alcuni altri. Vi sono cru che sono totalmente spariti, come lo Château Dubignon, 3ème cru classé di Margaux, che solo dieci anni dopo il classement del 1855 fu assorbito dallo Château Malescot-St. Exupery, cru della stessa categoria. Altri sono stati smembrati e spartiti tra proprietà diverse e qualcuno è persino ritornato in vita, ma con un vigneto solo in parte uguale a quello originale. E’ il caso dello Château Desmirail: dopo il fallimento dei proprietari, nel 1938, venne venduto in parte a Palmer e in parte alla famiglia Ritz che trasformò il suo nome in Château Ritz-Demirail. Sparito anche quest’ultimo marchio, Desmirail fu riportato in vita da Lucien Lurton nel 1981, recuperando anche due ettari dallo Château Palmer. Molti altri crus hanno invece ampliato, anche notevolmente, la propria dimensione attraverso l’acquisizione di terre vicine (con classement spesso inferiori al proprio), riassorbendole nella produzione del loro grand vin.

Aumentare i propri volumi era divenuto più importante: in un’epoca in cui dominava il négoce, la qualità era meno importante della quantità, ciò che portò a dare sempre più preso alle marche. Così Aléxis Lichine, proprietario di Prieuré-Lichine (5ème cru di Margaux) e Lascombes , scelse di ampliare entrambi in misura notevole. Ma, se il record ineguagliato è quello di Bernard Magrez, che ha portato in soli venti anni il suo Château Latour-Carnet , cru classé dell’Haut-Médoc da 45 a 251 ettari (poi ridotti a 230), neppure un Premier cru di Pauillac come Lafite-Rotschild è rimasto fermo, ma anzi ha ingrandito considerevolmente il suo parcellario portandolo dai 74 ettari del 1855 a 115, con un incremento di quasi il 55%, mentre Latour ha aumentato il suo vigneto da 55 a 95 ettari, pur riservando l’impiego di quello storico-il Grand Enclos- alla produzione del grand cru, per impiegare le nuove acquisizioni solo nel suo secondo e terzo vino.
Come si vede, a parte un ristretto numero di Châteaux “resistenti”, o che si sono limitati ad un ritocco del 15-20% (come Palmer, Issan o Pontet-Canet), la maggior parte dei crus classés ha notevolmente modificato il vigneto del 1855, ampliandolo in misura significativa e valorizzando sempre più la propria marca. In effetti il grande classement napoleonico, nonostante la sua grande rinomanza e il prestigio, non ebbe all’inizio un grande rilievo commerciale, e il négoce puntò soprattutto sulle medaglie ricevute ai concorsi nazionali e internazionali per far affermare i propri vini. Il livello di qualità dei vini ne fu corrispondentemente abbassato, anche in talune proprietà di grande prestigio, in sofferenza per i costi più elevati e per la relativamente scarsa remuneratività, protrattasi per una larga parte del secolo scorso, sicché in molti casi cambiarono di mano, specie tra le due guerre.

Una prima svolta si ebbe quando un numero crescente di Châteaux cominciò a imbottigliare e a vendere direttamente i propri vini: il négoce restò molto importante, per il suo peso nelle primeur, ma il suo ruolo ne fu in parte ridimensionato. Inoltre prese nuovo vigore la competizione tra le diverse proprietà, nella quale a prevalere non fu più la quantità ma la qualità dei prodotti. Anche la classificazione napoleonica riacquistò importanza, venendo ora riportata e messa in evidenza in etichetta. Nuovo impulso alla rinascita di Bordeaux e dei suoi migliori terroir venne poi, negli anni ’80, dall’accresciuta risonanza internazionale, dal rinnovamento dei vigneti e dei materiali vegetali, dal miglioramento delle tecniche di coltivazione e vinificazione. Venne inoltre iniziato uno studio approfondito dei territori e della natura geologica dei loro suoli, come quello condotto da Pierre Becheler sulle terrazze di Margaux, allo scopo di individuare i suoli migliori e più idonei per la produzione del grand vin. Si cominciò così a differenziare maggiormente quest’ultimo dai secondi vini, anche distinguendo le vigne da cui venivano prodotti. A crescere, ma più limitatamente, furono dunque i volumi dei secondi e terzi vini, ma non quelli del vino più importante, con grande giovamento per la loro qualità.
Come si vede, quello tra terroir e marca nel bordolese non è stato un rapporto lineare, come quello borgognone, nel quale il prestigio, anche storico, dei climat fu messo al centro , in modo via via più esplicito molto più precocemente, ma si potrebbe definire sinusoidale: dalla metà del settecento ad oggi è stato, sia pure inizialmente fondato su basi principalmente intuitive, il primo a prevalere (i vini col maggior successo commerciale erano anche quelli provenienti dai terroir migliori), poi la decadenza delle grandi proprietà nobiliari, i maggiori costi, l’accomodarsi del négoce su una rendita derivante da una posizione dominante, determinarono una spinta ad aumentare i volumi di produzione e a ristrutturazioni importanti dell’ identità dei diversi Châteaux a causa di acquisizioni sempre più ampie. Fu allora la marca a prevalere per tutto il XX secolo. Poi la nuova svolta.