Sarò impopolare, ma oggi si abusa un po’ troppo del concetto di eroe e dell’aggettivo “eroico”. Per chi è cresciuto tra le suggestioni omeriche, gli eroi sono altri da quelli che popolano i social e i giornali: semidei con la testa nel mondo e i piedi nel mito.
Per parlare di vino mi piacciono di più il concetto di coraggio e l’immagine dei coraggiosi. Che, sì, forse sono un po’ sotto il livello degli eroi, ma sono anche molto più umani e, in fin dei conti, tangibili. E perciò si misurano con imprese più a portata d’uomo come, appunto, fare il vino.
Ci ripensavo quest’estate, discendendo da Giovo, lungo scale vertiginose, i perigliosi terrazzamenti della Val di Cembra all’inseguimento di Paolo Piffer – vignaiolo radicale, ma per l’occasione metà vignaiolo e metà chaperon – che mi guidava tra i filari spiegandomi i segreti del “mosaico vitato” cembrano, di cui la Cantina sociale di Cembra (non a caso autobattezzatasi “Cantina di montagna”) rappresenta parte cospicua. Due numeri in croce posso aiutare a mettere a fuoco il concetto: trecento soci per trecento ettari, tutti tra i 500 e i 900 metri di quota, spezzettati in prese di mediamente mezzo ettaro, con un fabbisogno annuo di lavoro di 900 ore, in pratica il triplo che in pianura, e con pendenze anche del 40%, dove l’uva viene trasportata a spalla nei “congiàl” (cioè le bigonce). Una faticaccia, nonostante le rese varino dai 40 q.li del Pinot nero ai 65 q.li del resto (Müller Thurgau, Chardonnay, Riesling). Il tutto letteralmente “retto” da almeno 700 chilometri di muretti a secco, fatti a mano, si capisce. Roba per gente coraggiosa, appunto.

In un contesto del genere e in un mondo del vino globalizzato, anni fa da queste parti si era arrivati a un punto in cui l’unica strada per sopravvivere era scegliere la qualità, racconta l‘enologo Stefano Rossi, cembrano di nascita e in azienda dal 2011. “Ci ha aiutato l’esperienza: nel tempo sono emerse infatti alcune particelle particolarmente “fortunate”, individuate dalla cantina attraverso l’osservazione quotidiana”, racconta. “Sono questi vigneti che vanno ad arricchire la complessità del Müller Thurgau, del Riesling, dello Chardonnay e del Pinot Nero della collezione aziendale. Stagione dopo stagione, il carattere di questi appezzamenti è stato sempre più evidente”, continua. “Abbiamo preso confidenza con loro e ci siamo convinti che siano i valori aggiunti per l’identità dell’intera valle”. Da qui l’idea di considerarli come un unico “cru di eccellenza” e farne una linea ad hoc, con cinque vini monovitigno e una cuvèè (“Zymbra”, dall’antico nome della valle).
Vi assicuro, però, che una cosa è parlarne davanti a un bicchiere di Oro Rosso, il Trento doc riserva pas dosè millesimato della Cantina, o seduti a una scrivania col block notes di fronte, un’altra è farlo sotto il sole a picco, con le gambe indolenzite, i polmoni che pompano aria pulita, gli occhi persi nel panorama montano e le pergole trentine che stormiscono intorno, accarezzate, o almeno ti piace illuderti che proprio in quel momento siano accarezzate, dall’Ora del Garda, il vento del sud indispensabile a Cembra per asciugare il clima valligiano. E mentre tu, impossibilitato a scrivere per via del cammino, tenti di mandare a memoria informazioni e suggestioni, croce e delizia di ogni giornalista in movimento, l’implacabile Paolo Piffer prosegue la discesa lungo l’erta che conduce proprio alla sua vigna, raccontando della tradizione familiare portata avanti, da lui e dalla fidanzata come da tantissimi altri in valle. Poi, a un certo punto, devia dalla massima pendenza s’addentra in una specie di vialetto nascosto dalla vegetazione. In fondo al quale si apre qualcosa che somiglia a una grotta, chiusa da un portone rabberciato. Lo apre. Sembra l’antro di Polifemo. E noi – non certo come eroi omerici e nemmeno come uomini coraggiosi, ma spinti dalla curiosità – entriamo. Dentro di ciclopico non c’è nulla, salvo un paio di botti che, per essere trasportate lì, devono aver richiesto uno sforzo davvero ciclopico. Ci sono invece un focolare, una branda, una lanterna, un po’ di attrezzi, aria umida e tante ragnatele. “E’ la mia cantina di riserva”, spiega Piffer, “quando non ce la facciamo a portare tutta l’uva nella cantina vera, ci arrangiamo qui”.

Della questione, del coraggio e naturalmente dei vini discetteremo qualche ora dopo, placidamente assisi sulla riva del Lago Santo (una delle patrie del curling italiano, correva l’anno 1972), con un bicchiere di Riesling 2018 versato da una magnum, un calice di Pinot nero, un altro di Muller Thurgau e un pezzo di treccia mochena (crema pasticcera e marmellata di mirtilli) pronta da addentare.
We can be heroes (just for one day).