Campane a morto per l’aceto di vino artigianale3 min read

Mettiamo si potesse fare un referendum tra tutti i chicchi d’uva del mondo su cosa vorrebbero fare da grandi una volta vendemmiati. Se votassero secondo il loro istinto e secondo madre natura sulle schede troveremmo solo questa frase. “Voglio diventare aceto!”

Infatti sarebbe quella  la gloriosa fine di ogni  chicco d’uva che si rispetti e solo la perfidia e la scienza umana li dirotta da millenni  verso un destino per noi più nobile, per loro quasi contro natura.

Contro natura sembra andare anche la normativa italiana ed europea sugli aceti di vino, ma di questo parleremo dopo.

Prima voglio dichiarare il mio odio viscerale per quelli che vengono definiti aceti balsamici. Li troviamo oramai da tutte le parti, te li propinano per condire l’insalata, li trovi sbattuti come accompagnamento o come ingrediente base in centinaia di piatti dove non se ne sentirebbe la mancanza. Oddio, se ne sentirebbe la mancanza se l’aceto balsamico in questione fosse quello Tradizionale di Modena, che però e tutt’altra cosa (questo non lo odio di certo!!), costa giustamente molto e non è certo adatto a far cucina “economica”.

Oramai sembra quasi impossibile trovare un buon aceto di vino a ristorante, uno di quelli dal profumo penetrante e quasi piccante, ma armonico e ampio, avvolgente. Non per vantarmi ma….uguale a quello che, dopo ripetute prove, sono riuscito a fare e ad usare in casa mia.

Tanto odio il cosiddetto balsamico, tanto amo l’aceto di vino ; per questo sono stato felicissimo quando Claudio Rosso, principalmente produttore di vini langaroli, mi ha spedito un interessantissimo libro da lui scritto: Asì, l’aceto artigianale nella tradizione piemontese ( ArabaFenice edizioni, Euro 22).

Lo consiglio agli amanti dell’aceto; scoprirete come un ragazzino può appassionarsi ad una materia così particolare e come si possano creare ottimi aceti da ottimi vini. Ovviamente Claudio Rosso produce anche aceto (non sono molti quelli che lo fanno ai suoi livelli) ed eccoci quindi al vero motivo di questo articolo.

Con la legge 82 sui vini del febbraio 2006  si sono normati  anche gli aceti, recependo l’indicazione comunitaria che pone un limite all’alcol residuo in un aceto di 0,5 derogabile fino ad 1,5. Questo perché se c’è poco alcool residuo  ci sono meno rischi di fermentazioni anche marginali e quindi  maggiore stabilità.  Ma chi produce aceti di vino di vera qualità parte da un vino di 13-14 gradi ed è molto difficile scendere a quei livelli. Normalmente si arriva ad avere 2-3 gradi residui ed infatti  la precedente legislazione italiana prevedeva fino a 4.

Divertente è il fatto che 0.5 di grado alcolico è previsto in primo luogo per gli aceti di frutta e poi, solo in deroga, arriva il limite per quello di vino. Quindi certifica praticamente che l’aceto di vino è un specie di sottoprodotto  “in deroga”.

Posso anche essere d’accordo se si parla di quelli industriali fatti in autoclave in poche ore,  dove si usano vini di 10 gradi alcoolici, ma per l’aceto di vino artigianale dovrebbe essere tutta un’altra musica; purtroppo  in comunità europea nessuno ha difeso la logica produttiva della qualità e quindi si rischia di sentire campane a morto per i grandi aceti.

In teoria non sarebbe impossibile con il metodo d’Orleans (cioè l’acetificazione in botticelle per lunghi periodi) arrivare a 1.5 di alcol, ma nessuno te lo garantisce prima se parti da vini di pregio con 13-14 gradi. Per essere sicuro dovresti usare vini di minor grado e alla fine, probabilmente, ottenere aceti di livello inferiore….ma a norma.

Il caso dell’aceto tradizionale è emblematico di come realmente si cerchi di difendere le specialità italiane, quelle fatte con il tempo e con materie prime e tecniche antiche e sopraffine.

Il bello è che uno dei primi atti del l’allora ministro dell’Agricoltura Galan fu di difendere l’aceto balsamico (non tradizionale di Modena) a Bruxelles. Ma per quello di vino, che fa parte della storia di tutte le regioni italiane e non solo di qualcuna, nessuno ha mosso foglia.

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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