Antonio Pulcini e Casal Pilozzo: ultima fermata prima del Paradiso11 min read

“Antonio, allora ci vediamo mercoledi…ok? E’ anche il mio compleanno!”

Davvero Andrè? Allora porta due pasticcini che io vedo di rimediare una buona bottiglia.”

Inizia cosi la mia amicizia con Antonio Pulcini: di Monteporzio Catone, classe 1941 (d.C. fa notare lui) fondatore della Cantina Casal Pilozzo, custode della Malvasia Laziale, soprannominato “il Pazzo”.

Appuntamento alle ore 10.15. Alle 10.16 mi squilla il cellulare, è Antonio che mi fa notare con leggerezza e garbo che sono in ritardo al nostro appuntamento, sorrido e mi scuso ma la colpa è della circolazione romana che dopo la fine del lockdown è tornata a farsi molto densa come certi rossi marmellatosi fatti male e conservati peggio.

Dieci giorni prima di questo incontro ero stato in visita per la prima volta a Casal Pilozzo insieme ad un caro amico che da tempo frequenta questa cantina.

Quel giorno era lui in ritardo e nei brevi minuti di attesa fuori dalla propretà, ero rimasto colpito dall’aspetto semplice e poco appariscente dell’entrata (non molto appeling direbbero gli esperti di marketing).

Nulla a che vedere con le aziende vinicole che si visitano abitualmente e che fin dal cancello provano ad attirare l’attenzione e l’interesse anche del passante più distratto.

Dopo aver fatto un giro nella tenuta, nella cantina scavata nel tufo ed aver trascorso qualche minuto con Antonio, ho capito che la bellezza di questo posto, la sua storia ed il suo fascino sono volutamente celati ai più e se vuoi conoscerle ed apprezzarle devi essere curioso e avere tempo.

Conclusa quella fantastica visita chiamai Carlo (Macchi) e gli dissi che dovevo raccontare quella storia.

Dovevo prendermi del tempo per capire come era nato questo amore per la vite (e per la vita), cosa c’era dietro alle grandi e longeve creazioni che ha realizzato ma soprattutto quale era la storia di questo uomo, di questo “burino vero”, come a lui piace definirsi.

Carlo che conosce bene sia il personaggio che le sue opere vinicole, mi diede via libera con un raggiante ed   ispanico “Me gusta!”.

Ma torniamo ad Antonio ed ai miei 20 minuti di ritardo!

Mi accoglie con quel sorriso buono e tranquillo che lo contraddistingue (anche quando ti manda a quel paese) e in mano ha un “Malvasia Casal Pilozzo 1994”.

“Allora una bottiglia l’hai trovata?”. Sorride di nuovo e mi fa gli auguri. Stappa lui perché dice che è più preciso di me ed in effetti ha ragione.

Ci accomodiamo nel giardinetto di fronte alla Cantina, elegantemente pergolato a vite e con vista sulla Città Eterna.

Antonio ricorda tutto, date, nome, posti, persone ma soprattutto eventi: quelli antipatici lo fanno sorridere e quelli duri e dolorosi lo fanno commuovere (e io con lui mentre invano cerco di alleggerire con le mie battute alla Zelig). Basta solo ascoltarlo e seguire il filo.

Ed il filo inizia a srotolarsi subito dopo la fine della seconda guerra mondiale. Famiglia di contadini la sua, da sempre radicata a Monteporzio, avanposto millenario dei Castelli Romani dove imperatori e papi hanno avuto qui dimora, così come molte stelle hollywoodiane degli anni ‘50 e ’60 del secolo scorso.

Non ha una grande voglia di studiare (ha perso il conto delle volte in cui ha ripetuto l’esame di licenza elementare) e nemmeno di fare il contadino. Vuole viaggiare, conoscere il mondo e… suonare, fare musica.

A 8 anni è già nella banda del paese, a 18 crea un complesso con alcuni amici e inizia a scrivere testi e comporre musiche.

Realizza alcuni lavori per il cinema, fa serate nei locali più cool delle folli “estati romane”: Piper e Taita tra tutti. Collabora con icone come Ennio Morricone e Little Tony ma non disdegna comunque matrimoni e feste di paese.

Siamo agli inizi degli anni ’60, quando l’Italia è nel pieno del suo boom economico e se ci credi, puoi davvero realizzare i tuoi sogni.

Ma il destino ama disegnare percorsi tortuosi e quando meno te lo aspetti ti piazza un bell’ostacolo davanti ai piedi, giusto per vedere se sei in grado di evitarlo o se invece ci inciampi e finisci per terra.

E’ il 1964, un grave lutto colpisce la famiglia di Antonio: il padre poco più che cinquantenne non riesce a vincere la battaglia contro un male incurabile. Antonio ha già famiglia e in più ora deve badare ai suoi fratelli più piccoli ed alla madre rimasta vedova.

La sua “estate romana” finisce qui, posa gli strumenti musicali, chiude gli spartiti e si mette a fare il viticoltore riprendendo in mano i terreni di famiglia che gli sono rimasti (molti erano stati venduti per ripagare le cure paterne).

Ma Antonio è uno che non si scoraggia, cerca di guardare avanti e si rimbocca le maniche.

Con un socio acquista una società agricola in difficoltà, unisce le forze, mette in moto una macchina che agli inizi degli anni 70 gli permette di fare esportazioni di Frascati in mezza Europa.

Erano i tempi in cui i contratti si facevano con una stretta di mano – ricorda con un sottile velo di malinconia che gli increspa lo sguardo –  e guai se sbagliavi una virgola, eri bollato a vita non ti facevano più lavorare, specie all’estero.”

La svolta arriva alla metà degli anni ‘80, quando in una degustazione di vini laziali a Londra, incontra Bruno Bottai ambasciatore italiano (figlio del più noto Giuseppe, già ministro durante il Fascismo e firmatario dell’Ordine del giorno Grandi) che voleva vendere la sua tenuta di Casal Pilozzo a poche decine di metri dai terreni della famiglia Pulcini.

Antonio si fa due conti, mette insieme il capitale e acquista la tenuta nel 1987. Ristruttura il Casale (che di fatto era stato costruito sui resti di una villa romana) e reimpianta tutti i vigneti: Malvasia del Lazio la sua regina ma anche Grechetto Antico, Chardonnay, Merlot, Pinot Nero, Cabernet Franc e Cabernet Sauvignon.

Con l’arrivo a Casal Pilozzo, decide di cambiare filosofia imprenditoriale e inizia a fare vini (soprattutto bianchi) importanti partendo dalla storia del suo territorio, con la Malvasia del Lazio che qui è in grado di dare la sua rappresentazione più elevata e sublime.

I risultati arrivano con il Colle Gaio (prima uscita 1985): 100% Malvasia del Lazio coltivata nel vigneto omonimo, un vero e proprio “cru” di circa 3 ettari, a 400 mt slm e ad un tiro di schioppo da Casal Pilozzo.

Le viti che trova hanno almeno mezzo secolo e così mantiene le migliori e da queste estrae le marze che reimpianta nello stesso terreno.

“Il successo di questo vino è tutto lì – spiega – io ho solo imbottigliato il regalo della natura, l’opera di questo territorio e il talento di questo vitigno.”

Antonio qualche anno fa.

Già, ha fatto solo questo in effetti, il Custode della Malvasia Laziale.

In verità Antonio conosce questo territorio (siamo nella caldera di uno dei vecchi vulcani dei Castelli Romani) e ne intuisce perfettamente le potenzialità.

E poi ci sono le escursioni termiche dei colli di Catone (350 mt slm) ma soprattutto la corroborante acidità e la suadente aromaticità della Malvasia del Lazio che possono diventare le armi giuste per ottenere quei grandi bianchi longevi che Antonio vuole realizzare.

La vendemmia è quasi sempre tardiva (ottobre), le uve sono raccolte a mano. La pressatura soffice è seguita da una fermentazione lenta sulle fecce nobili a 12 – 14 °C. Il prodotto viene poi lasciato a maturare in vasche d’acciaio per un tempo variabile (uno o due anni) e poi, subito dopo l’imbottigliamento  viene depositato in nicchie scavate nel tufo, dove la temperatura di 15 °C è costante e naturale. I lieviti sono indigeni.

Nei primi anni ’90, quando in casa era pressochè sconosciuto, il Colle Gaio raccoglie consensi e realizza fatturati interessanti nel difficile mercato britannico (all’epoca “frequentato” già da alcuni big come i vini di Gaja, il Sassicaia di Incisa della Rocchetta e diversi Brunello di Montalcino).

Antonio, unico produttore del Lazio presente all’epoca in terra di Albione, ripensando a quegli anni ci tiene a ringraziare la fortunata amicizia con Bruno Ceretto (uno dei due Barolo Brothers, l’altro è Marcello) che si appassiona ai suoi vini e gli fa conoscere un importatore italiano che non solo lo farà apprezzare nei ristoranti della City ma lo introdurrà anche nella complicata distribuzione californiana.

Cosa può fare a questo punto un viticoltore affermato e benestante? Sedersi sul portico e godersi la vista? Nemmeno per idea. Da una giocata a carte con gli amici nasce l’idea di creare una banca cooperativa per supportare il territorio e i microimprenditori.

Si chiamerà Banca Catone e il suo battesimo arriverà con le autorizzazione della Banca d’Italia, nel 1989.

Sarà poi lo stesso organo di vigilanza che anni dopo “costringerà” i soci ad accettare il progetto di fusione con altre banche minori della zona dei Castelli Romani.

“Un mio difetto? Non ho mai fatto passare un treno senza prenderlo. Un rammarico? Quando non sono riuscito a diventare Sindaco di Monteporzio nel 1995 – sorride – ma forse non ero la persona giusta per quell’incarico.”

Ricorda un’altra frequentazione importante, quella con Nicolas Belfrage che una sera del 1982, assaggiando il suo “San Cristiano” gli chiese: “Antonio ma che diavolo è ‘sto vino?” – “Pinot Nero e Cabernet Sauvignon Nicò!” – e lui semiserio: “Antonio solo te puoi fare ‘ste cavolate”.

Il San Cristiano si è poi ritagliato un’interessante fetta di mercato restando a pieno titolo nella squadra vincente di Casal Pilozzo. Alcune versioni come la 1993, sono state in grado di superare con leggiadria i due decenni.

E qui mi confessa: “Sai quanti vini ho provato e poi mi sono reso conto che erano da buttare? Nemmeno io me lo ricordo più ma sono stati davvero tanti. Credevo fossero delle genialate ma invece erano delle… va be hai capito”.

Tenacia, ferrea determinazione e voglia di sperimentare, solo così sa e vuole fare il suo mestiere, Antonio Pulcini, classe 1941 (d.C.).

“Antonio ma perché qui a Monteporzio ti chiamano Il Pazzo?”

“Perché già all’inizio degli anni 90, a luglio, tagliavo via i grappoli di Malvasia per fare qualità. Per i contadini del posto era una sciagura, una pazzia buttare via quel bendidio e da allora mi chiamano così.”

Le parole che usa di più: fortuna, famiglia, figli e sacrificio.

I suoi valori più forti e radicati li chiama “debolezze”, non è saccenza ma bensì educazione e rispetto, di quelle forme cosi solide che si apprendono solo con l’esempio.

La sua giornata tipo: sveglia alle 4 e mezza, colazione, telegiornali e poi subito a lavoro: ci sono da gestire i rapporti coi clienti, va organizzato il lavoro degli agenti e dei distributori e poi ci sta la vigna. Alla 20 stacca e alle 21 è già a letto.

Mentre ascolto questa lucida cavalcata durata più di mezzo secolo non smetto di pensare ai calici che ho assaggiato: queste vecchie annate di Malvasia – la 1994 per la Casal Pilozzo e la 1997 per il Colle Gaio – sono spaziali: fresche, sapide, morbide, ti accarezzano languide come il velluto ma sono solide e potenti come il tufo che le ha cullate e protette per decenni. Incredibile come tengano il passare degli anni.

Per entrambi il colore è giallo paglierino, molto intenso e ancora sfavillante. Il bouquet aromatico è ricchissimo e si prolunga ad ogni rotazione. Qui l’erbaceo e le erbe aromatiche (salvia tra tutte) sono didattici, puliti e perfetti mentre la severità dell’ idrocarburo mi ricorda quelle espressioni verticali assaporate in Mosella ma in annate più giovani (2007 e 2008 degli Auslese di Markus Molitor o di Clemens Bush tanto per intenderci).

Il palato si riempie di un sorso che è corposo e ricco, con un tipico sapore di nocciola (che ricorda certi Chardonnay di Mersault, come quelli di Olivier Leflaive) ed una freschezza e persistenza devastanti.

Terreni vulcanici nella zona di Monte Porzio Catone

Incredibile come il tempo abbia trasformato e mantenuto l’aromaticità iniziale, giocando con le sensazioni ematiche e ferruginose, i toni di erbe essiccate ed officinali.

La bocca è straordinaria per via di una freschezza che commuove e una vivacità che toglie il tempo al tempo che passa. Facciamo bene a scomodare i mostri sacri per i paragoni!

La Malvasia Casal Pilozzo 1994 è in bottiglia dal ’96, due anni di acciaio con pochissime filtrazioni, si porta dentro una mineralità esplosiva, fatta di grafite e polvere da sparo senza nemmeno una nota ossidativa a tentare di sbilanciare il quadro complessivo (già perché di opera d’arte stiamo parlando). Mi chiedo se davvero abbia 26 anni questa ragazzina.

Nel Colle Gaio 1997, rispetto al precedente, sono state usate la temperatura controllata di vinificazione ed una maggiore filtrazione ma qui tutto si supera, lasciandoci basiti.

Le pennellate del quadro precedente si trasformano in una sinfonia di orchestra dove tutti gli strumenti ed il coro si muovono in armonia realizzando un equilibrio sublime per una bevuta che in bocca esplode per ore in un caleidoscopio di sensazioni minerali e di acidità che domina il palato come solo i grandissimi vini sanno fare. E questo, signori, è senza dubbio uno dei più grandi vini bianchi dei Castelli Romani e non solo.

Grande intelligenza e schiettezza per questo signore di quasi 80 anni, un mix di intuito e istinto che da sempre lo accompagnano ogni volta che mette in pratica le sue teorie, spesso e volentieri in contrasto con i dettami ufficiali della scienza enologica moderna, come quando disse no alle alte densità impianto.

Mi alzo per congedarmi e lo aiuto a sparecchiare il tavolino, vorrei abbracciarlo ma siamo in Fase-3, ci scambiamo solo un sorriso amichevole.

“Antonio ma come è ‘sto posto secondo te?”- “Una volta venne un turista tedesco in visita qui, dopo mezz’ora che guardava il panorama immobile proprio lì dove stai te ora, gli feci la stessa domanda e lui mi rispose: “ Antonio questo posto… e’ l’ultima fermata prima del Paradiso”.

“Ciao Anto’, vengo a trovarti presto! “

“Ma vieni un po’ quando c… te pare”

Andrea Donà
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