Il cibo dei riti4 min read

Non abitando in  tribù o comunità dedite a riti particolari, iI mangiare dei miei riti si conta sulle dita di una sola mano. Ma non per questo risulta  meno interessante e piacevole nei miei ricordi .

 

La trebbiatura

Al primo posto metto il mangiare delle trebbiature perché quella  occasione sì che era un rito.

Quando ancora c’era la trebbiatrice che veniva spostata da podere a podere, azionata prima con le macchine a vapore e poi con i trattori, richiedeva l’impiego di molte persone. E quindi c’era l’abitudine dello scambio del lavoro. Cioè ad ogni piazzatura, ad ogni podere dove si trebbiava, convergevano tutti i contadini delle vicinanze che poi si spostavano in quello successivo e così via.

Il lavoro iniziava presto, verso le sette, ma alle otto ci si fermava di già per la colazione. Questa si faceva seduti a tavola e comprendeva una condita con pomodori e cetrioli, degli affettati con in testa il prosciutto, ma anche salame e mortadella. Ci poteva essere anche del baccalà in umido o delle frittate, generalmente di cipolle o di zucchini. Altro piatto che veniva servito erano le saporite e appetitose acciughe sotto pesto. Per i privilegiati "macchinisti" ci poteva essere anche del pollo fritto.

Ripreso il lavoro ci si fermava di nuovo da mezzogiorno alle due per il pranzo ed un piccolo riposo. Nel pranzo di mezzogiorno ogni massaia dava il meglio di sé e …….del suo pollaio. Pasta fatta in casa, sugo di carne, pollo in umido ed il principe indiscusso di questi pranzi: il papero. Durando la trebbiatura, che andava mediamente dai due ai quattro giorni, se un giorno c’era la pasta col sugo, il giorno dopo c’era sicuramente il brodo di papero e a seguire il papero lesso. Nella pasta a brodo c’erano normalmente i taglioni all’uovo. Ma come primo ci poteva essere anche una zuppa di pane e verdure, ma anche la fantastica e fresca panzanella.

L’ultimo giorno c’era normalmente l’arrosto che poteva essere di pollo o d’agnello. Ripreso il lavoro ci si fermava di nuovo alle cinque per una merenda a base di pane con prosciutto e formaggio, altri affettati, un pomodoro a morsi con un pizzico di sale e qualche bicchiere di vino che durante la giornata si beveva poco.

L’ultimo giorno a fine pranzo capitava che ci fosse  anche il dolce che quasi sempre era la zuppa inglese fatta con materia prima quasi tutta casareccia.

 

Il mangiare da malati

Questo potrebbe lasciare perplessi, e invece per me era proprio un rito, anzi era ed è rimasto IL RITO. Ma anche per le mie figlie è così, e perfino i nipotini hanno già capito e si sono adagiati in questa cuccia.

Mi riferisco alle occasioni in cui uno si ammala nell’età dell’infanzia. Ogni regione ha le sue abitudini. Ma anche ogni famiglia ha il suo proprio menu e le proprie usanze che alla fine diventano dei veri e propri riti.

Il mio “rito” prendeva forma al minimo accenno di influenza. Immediatamente si faceva un purè di patate mentre si correva a rimediare una razza da fare lessa. Non c’è niente da ridere, c’è solo da gustare e basta. Ogni volta la scena si ripeteva e mi consolava non poco. Poi mi accorsi che era importante anche il fatto che il piatto mi venisse portato a letto già preparato con la razza ben condita con olio e limone. Si prendeva un secondo guanciale e mi si sistemava a sedere con il tovagliolo al collo. Mi lasciavano lì a mangiare con calma e io mangiavo lentamente, molto lentamente e mi pareva di avere nel piatto  la manna venuta dal cielo. Poi mi rimettevo giù sotto le coperte a smaltire la mia malattia. Ma a stomaco pieno.

Anche mio nipote Giacomo che ha otto anni ha preso lo stesso “vizio”. Solo che lui è meno esigente del nonno e per lui è sufficiente che gli sia servito un piatto a letto, magari su di un portapiatti in legno proprio per chi sta a letto come a suo tempo acquistai per regalarmi via via la gioia di questo piacere. È anche meno ipocrita del nonno, infatti quando gli prende la voglia me lo chiede, anche senza avere febbre o influenza, e io corro ad accontentarlo.

Sì perché ormai è chiaro che non è tanto quello che mangi, ma come e dove lo mangi e chi te lo prepara.

Ogni volta che mangio purè e razza, più o meno consciamente, rivivo i momenti dolci e rassicuranti della cura della mamma (e della nonna) che tanto bene mi hanno voluto. Spero di dare le stesse sensazioni ai miei nipoti.

Roberto Tonini

Nato nella Maremma più profonda, diciamo pure in mezzo al padule ancora da bonificare, in una comunità ricca di personaggi, animali, erbe, fiori e frutti, vivendo come un piccolo animale, ho avuto però la fortuna di sviluppare più di altri olfatto e gusto. La curiosità che fortunatamente non mi ha mai abbandonato ha fatto il resto. Scoperti olio e vino in tenera età sono diventati i miei migliori compagni della vita. Anche il lavoro mi ha fatto incrociare quello che si può mangiare e bere. Scopro che mi piace raccontare le mie cose, così come a mio nonno. Carlo mi ha invitato a scrivere qualche ricordo che avesse a che fare con il mangiare ed il bere. Così sono entrato in questa fantastica brigata di persone che lo fanno con mestiere, infinita passione e ottimi risultati. 


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0 responses to “Il cibo dei riti4 min read

  1. Bellissimo e verissimo!!
    ….non è tanto quello che mangi, ma come e dove lo mangi e chi te lo prepara!!!
    e’ l’amore con cui si fanno le cose che da’ il giusto gusto anche al cibo…. anche al corso di Reiki, che sto frequentando, hanno aperto un piccolo capitolo su questo argomento!! e se poi uno ci pensa bene e’ proprio cosi’ nella vita di tutti i giorni!

    Grazie come sempre!!!!

  2. come sempre la descrizione che fai del cibo a me fa venire fame anche se ho appena colazione. Io non ricordo il papero, ricordo però il pollo in umido o il coniglio, nel tegame a far loro compagnia c’erano sempre le olive nere, buonissime. Le stesse olive passate in forno tutte raggrinzite venivano poi messe nei barattoli di vetro con una quantità  di aglio impressionate e poi ricoperte di olio. Semplicemente fantastiche.Le stesse olive seccate nel forno della stufa a legna si tenevano in tasca pronte da mettere in bocca al posto di una caramella. La descizione della piacevole sensazione che si può trarre dall’avere il cibo a letto portato da mani amerevoli, nel momento in cui un bambino è più bisognoso di cure e di amore è dolcissima ma a me mette un po’ di malinconia perché non ho mai avuto l’opportunità  di provarla.

  3. Devo dire che se fosse solo per il mangiare mi verrebbe voglia di andare a trebbiare anche a me…Di certo però tutto quel ben di Dio era sudato! Però Roberto con grande precisione riporta quei bei momenti che, uniti ad una bella mangiata, lo diventano ancora di più. Soprattutto con legami stretti che si creavano nel nostro mondo contadino. Sul rito del malato, invece, io non sono un grande amante della razza e neppure della sogliola. A me la malattia porta per prima cosa l’assenza di appetito. Ma non c’è niente di meglio del primo pranzo o della prima cena appena ti sei ristabilito!!! E lଠqualsiasi cosa tu mangi ti sembra più buona del solito…Un’unica cosa non ho mai capito: nell’arsura della malattia c’è solo una cosa che sogno: un cedrata Tassoni…Non la bevo quasi mai, eppure appena ristabilito è ormai un rito del post malattia che segna la mia guarigione!!!!

  4. Vedi bene Carlo (Vellutini) che ognuno ha il suo pallino o feticcio che dir si voglia: la tua Cedrata Tassoni corrisponde grosso modo alla mia razza. Altra differenza non da poco tra i nostri “riti da malati”: a te la malattia porta immediatamente l’assenza di appetito, a me invece ”“ ma anche alle mie figliole e ai miei nipotini – a meno che non si tratti di febbre da cavallo, l’appetito proprio non passa.
    Circa la notazione di Carlo (Macchi) vorrei suggerire come surrogato la Limonata Rogé che ha un sapore assai simile alla Cedrata Tassoni. Credo che usino l’erba cedrina come aromatizzante. àˆ assai probabile che questa sia passata come medicinale. La mia nonna me la dava sempre nella versione purgante e quindi servita calda anziché fresca come si conviene alla Cedrata.
    Nel caso interessi segnalo la Limonata Magnesiaca Rogé, preparazione galenica da parte della Farmacia Baldi Marini di Lucca, dalla bellissima e originale etichetta.

  5. Sulla trebbiatura a fermo ho poco da dire, hanno smesso di farla quando ero piccolo, mi ricordo solo che a me mi facevano portà  l’acqua fresca per i “macchinisti”, l’altri s’arrangiassero…
    Sui rimedi “gastronomici” per guarire da malattie assortite, la mଠmamma era piuttosto scettica, però si affidava mani e piedi al dott. Nisi che a volte era davvero naif, nel senso che per un periodo, credo in prima elementare, mi fece fare una “cura” di brodo di pollo e pollo lesso con un’ insalata particolare che aveva all’interno del cespo delle piccole lumachine CHE NON DOVEVANO ESSERE ASSOLUTAMENTE TOLTE! Me le sono dovute mangiare! TUTTE! Naturalmente la mଠmamma era molto convincente (con le buone e con le cattive”¦), Il poro Berretti m’ha preso in giro fino a che non è morto”¦
    Avrei altre vicissitudini simili, ma vi risparmio i particolari”¦

  6. A sentire il racconto di Roberto,mi sembra di rivivere quel periodo, non per esperienza personale ma per il vissuto di mio suocero che nel periodo delle trebbiature in questione, viveva a S. Martino sul Fiora e con i propri mezzi andava per Aie a fare questo lavoro. Sorvolo sul cibo e la descrizione del mangiare compreso gli ingredienti, che Robrto a descritto esattamente anche perchè il metodo e il cibo a disposizione erano quelli,( forse in Mremma c’è ra qualche papera e qualche agnello in più).Ogni volta che raccontava come lavorava e ancora di più quanto lavorava, stento a credere ancora oggi che sia stato possibile resistere ad ritmo di lavoro in quel modo. Lui si alzava alle tre di notte per andare con il mezzo sul posto e preparare per l’inizio della trebbiatura, rientrava a notte e nella sua officina doveva sempre riparare qualche attrezzo che si rompeva,finiva a notte fonda, e dormiva solo qualche ora, per poi ripartire ed affrontare un’altra giornata di lavoro. Ma di episodi me ne ha raccontati tanti altri ealtrettanto interessanti.
    Però una considerazione mi viene spontanea,io credo che questa generazione, se ha raggiunto il benessere e gli agi che ha, lo deve sicuramente a degli uomini come Aldemiro.

  7. mezzo litro,motorino….dio mio stò bene solo a leggere questi nomi…mi sò già  fatta ‘na bella risata di mattinata,specialmente sulle lumachine dentro l’insalata…è un piacere trovare 5 minuti per ricordare con affetto e simpatia momenti che magari erano anche duri,ma sicuramente di aggregazione sincera.posso solo confermare quello che ha raccontato babbo(il granocchiaio)sui momenti della “malattia”,tutti a letto a mangiare yuhuuuuuuu!!!

  8. Per Roberto la giornata tipo della trebbiatura iniziava alle sette perché era al seguito del padre macchinista; ma il movimento ed il via vai di persone nell’aia iniziava alle sei: il trattorista arrivava per accendere la apparecchiatura che permetteva di scaldare la testata del motore del Landini appunto detto a testa calda che poi rimaneva in moto anche durante le soste ad eccezione del pranzo e gli addetti alla carratura iniziavano a dar il fieno o l’erba alle vacche prima di attaccarle ai carri, i ragazzotti iniziavano a fare i fili e poi all’epoca il sole era già  alto, non c’era l’ora legale. Appena giunti nell’aia si consumava il rito del “marsallino” un bicchierino di marsala all’uovo che qualche ghiotto accompagnava con un uovo fresco preso caldo caldo nel pollaio.
    A mezza mattinata c’era la cosଠdetta “battuta”. Una mezza fettina di pane con qualcosa, tanto per bere un bicchiere.
    A proposito del riposino dopo il pranzo si svolgeva di solito nella stanza del trinciaforaggi, sdraiati nell’erba fresca e dove c’era sempre una corrente d’aria che non si poteva stare a torso nudo.
    Uno dei cibi che non mancava mai nelle merende era la spalla del maiale, bellina grassa e che a volte aveva qualche filino di giallino che gli dava un gusto particolare. Era il mio pasto preferito e facevo proprio onore alla tavola, tant’è che il poveretto di Nanni Bonelli, detto Sbranino, si divertଠa contarmi le fatte di pane e spalla che consumai in una di queste merende al podere Vita Nova: ben 14 e mi chiese se , con quello che mangiavo, mi avessero anche pagato.

    Una nota anche per il mangiare dei malati. La zuppina di pane nel brodo e il pane grattato cotto nel brodo mi piaceva tantissimo; ciò che mi ricordava la mia condizione di malato era invece la fettina cotta al piatto e patate lesse condite con olio crudo e limone.
    Fa piacere ricordare queste cose, Roberto continua e se mi posso permettere farò qualche ulteriore commento.

  9. Bene, benissimo. dopo la trebbiatura e la malattia la dipendenza al Sig. Roberto Tonini è aumentata.
    Oddio, sul cibo dei malati ci sarebbe tanto da dire. Finché la malattia era leggera e la si sfangava a casa, era effettivamente una godurria, primo perché non si andava a scuola e secondo perché ti servivano a letto e non ti dovevi sottoporre alla tortura di sedere a tavola. Quando poi la malattiva diventava seria, meglio lasciar perdere.

    Ora mi aspetto il cibo dell’Avvento, della Quaresima e quello della Benfinita, che per chi non lo sapesse è la celebrazione della fine vendemmia.

    Roberto tonini ci hai avvezzato male!

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