Chianti amore mio!12 min read

Come potrete capire leggendolo, questo lungo articolo di Silvano Formigli  non è stato scritto di recente. Non per questo è meno importante e le cose che dice sono di minore valenza ed attualità. 

 

 

Non è un titolo novità in quanto è il titolo di un bellissimo libro scritto dal bravo  Santini di Livorno su questa meravigliosa e storica terra.

Nessuno credo possa obiettare sul fatto che il Chianti è il primo vino italiano che ha conquistato il mondo e creato la conseguente immagine.

Questo lo ha portato però a fasi alterne di qualità e di decadenza come la storia conferma, ma guardando la realtà attuale cosa troviamo? Una serie di aziende che si sono consolidate sul mercato grazie al loro lavoro serio e qualitativo, con tante altre aziende che si “arrangiano”. Territori che, secondo il mercato, non hanno delle precise indicazioni.

Mettiamoci nei panni del cliente di qualità, quello che quando ha un po’ di soldi, beve bene, beve il mondo dei vini, conosce vini e leggi e fa le vacanze nelle zone di produzione.

Va in Borgogna e trova una zona dove il vino è il collante di tutta l’economia, compresa quella turistica; dove tutti amano e rispettano il vino (e l’ambiente) trova produttori che hanno storia, che gliela sanno raccontare, ma più che altro hanno difeso e valorizzato la differenziazione del territorio. Questo ha evitato così inutili confronti tra microaree e portato la richiesta prima sul territorio e poi sull’etichetta del produttore, in rapporto ai piaceri di abbinamento e di beva.

Da noi invece è l’opposto. Il consumatore chiede l’etichetta di un vino, di un produttore che gli da fiducia o che vuole conoscere, ma non sceglie il carattere del vino a seconda del piatto e/o del momento che lo deve abbinare.

Tutto questo deve partire dal credo di un territorio, delle sue diversità (che non vuole dire qualità più alta in un posto, ma qualità con caratteri diversi), di un vero messaggio legislativo, culturale, promozionale in questa direzione.

So di scrivere cose (che scrivevo già nel 1978) che non saranno tenute in minima considerazione, ma il mio amore per il Chianti e le mie conoscenze di lavoro in questo settore, mi portano a dire che solo seguendo questa strada il Chianti, in tutte le sue aree, potrà avere un futuro di grande considerazione. Tutto il Chianti e non solo alcune aziende del territorio, perché terreno indubbiamente ricco di fascino, di storia e di persone attive.

Nel 1932 con i decreti ministeriali, confermate con la DOC del 1967 e DOCG del 1984, si sono volute sette zone del Chianti. Questo “grazie” indubbiamente agli interessi commerciali di allora, alla forte crescita di esportazione verso l’America e perché con gli inizi del ‘900 il Chianti diventa vino di “popolo”e non più prodotto importante per un mercato attento, culturalmente e qualitativamente.

Questo grande successo in America era dovuto in gran parte all’emigrazione ed al fatto che proprio le aziende imbottigliatrici chiantigiane erano ben organizzate.
Lo testimonia la difesa che produttori del Chianti Storico fecero nel 1924, fondando il Consorzio Gallo Nero, a tutela della loro produzione dalla zona più antica del Chianti, cioè quella dalla quale ha tratto il nome questo vino.

Purtroppo però queste Leggi non hanno mai obbligato l’indicazione della “sottozona” (Colli Fiorentini, Colline Pisane, Colline Senesi, Colline Aretine, Montalbano, Rufina),

Apro una parentesi sulla triste “denominazione”, per legge, di queste zone. Sottozona: cioè una parola che tende a sminuire e non esaltare e quindi non opportuna e valida nei confronti del giornalista e del cliente di qualità estero. Perché non chiamarle aree, o zone specifiche o altro, ma non certamente sottozone.

Comprendo che chi l’ha ideata voleva dire “sotto la zona”, ma componendola così tende ad essere diminuitivo e quindi andrebbe cambiato.

Con queste dizioni si può produrre 100 quintali se Chianti, 80 quintali (ad ettaro) se con il nome della zona specifica. E’ chiaro che di fronte ad una crisi dei prezzi la maggiore parte dei produttori, come immediatezza, ha optato per i 100 quintali a ettaro.

L’unica zona che intelligentemente è riuscita a farsi un proprio disciplinare ed uscire da quello generico del Chianti è il Chianti Classico.

Valutiamo però il Chianti Classico. Nel 1932 fu ampiamente allargato dalla zona originale tracciata dal Granduca di Toscana nel 1716 con il bando granducale, che prevedeva i confini geografici e le regole di produzione per quattro zone viticole di qualità. Chianti, Carmignano, Pomino e Val d’Arno di Sopra (mi sono sempre meravigliato che i produttori di questa zona non si siano rappellati per ottenere questa dizione separata come intelligentemente hanno fatto prima il Carmignano e poi il Pomino), inserendo anche zone più marginali, di bassa collina, con terreni più fertili.

Comunque terreni diversi, oltre climi fortemente diversi.

Chiunque guarda una carta geologica del Chianti Classico (foglio 113 della carta geologica dell’Istituto Geografico Militare), o chiunque percorre con attenzione le strade del Chianti Classico, si rende conto delle notevoli variazioni di terreno, per non parlare poi delle altitudini, delle esposizioni, del clima: tutte variabili notevoli per il carattere dei vini che si ottengono.

Un vino da terreni di alberese (roccia calcarea) a 500 metri è ben diverso da un vino che nasce nell’argilla a 200 metri.
Un vino di vigna esposto a sud e sud ovest è ben diverso da uno di vigna esposta a sud est.

Ma quante sono queste varianti in Chianti Classico: tantissime.

Allora torniamo alla Borgogna (da sempre asserisco che chi inizia ad imbottigliare o amare il vino deve fare una visita in questo territorio) dove appena cambia di un metro l’altitudine, o diminuiscono i sassi, o varia la mineralogia, ecc, cambia il nome della zona specifica (che intelligentemente i francesi non chiamano sotto zona, ma con dei criteri molto attenti arrivano a classificazioni specifiche).

Ed in Chianti Classico continuiamo a chiamare con una unica terminologia un vino che nasce il 70.000 ha di terreno (circa 9.000 vitati), in colline da 150 a quasi mille metri di altezza (la parte coltivabile non va oltre i 600), da terreni che vanno dal sabbioso, al limoso, all’argilla compatta, al galestro (marne), all’alberese e così via. Per non parlare dei vari climi, influenzati secondo le esposizioni e/o protezioni delle colline (vedi  Monti del Chianti e varie valli: Val di Pesa, Val di Greve, Val d’Arbia, Valle dell’Ema ecc.). Ma quanti caratteri avremo? Se poi teniamo conto che il vino, come dicono i francesi, non è una “spremuta d’uva” ma una trasformazione chimico-fisica di un prodotto gestita dall’uomo, ci troviamo a innumerevoli varianti.

Ma almeno il carattere del terreno o dell’altitudine vogliamo identificarlo?

Mi ricordo quando negli anni 70-80 e primi anni 90 facevo le serate sul Chianti: presentavo un vino per ogni comune ed era bello fare degustare i diversi caratteri grazie alle diversità dei terreni e  delle altitudini.
La gente era affascinata (erano degustazioni bendate, anche se prima guidate  con una presentazione storico-geologica-culturale)!

E quindi concludo il parametro Chianti Classico, dicendo ai produttori: “Cosa aspettate a chiedere delle zone specifiche nell’ambito della denominazione Chianti Classico?” Mi ricordo quando negli anni ’60 al mercato di Firenze i vini di Lamole, Panzano e Badia a Passignano (per l’area fiorentina del Chianti Classico) avevano una loro quotazione specifica e basterebbe  ascoltare il grande palatista Giulio Gambelli per farsi una storia dei tagli che le aziende commerciali facevano tra le varie zone, onde  conferire caratteristiche  più immediate e accettabili dal consumatore base.

Ve lo permette la legge: basta che lo chieda una piccola percentuale di produttori. Nel 1987 lo proposi ai produttori di un comune dove allora lavoravo:  mi rispose solo un produttore che faceva 150 quintali di vino. Ma ora i tempi sono cambiati; c’è più maturità di mercato, c’è più competizione, c’è necessità di caratterizzarsi.

Per le altre zone del Chianti dico che non è giusto che soffrano di una situazione di prezzo e di immagine (in molti casi). Questo perché sono zone meravigliose, che se invece di chiamarsi “Chianti X”, si fossero allora chiamate solo “X” oggi avrebbero una loro identità e sicuramente prezzi diversi e più remunerativi. Lo conferma il fatto che le zone di Montalcino e Montepulciano, inserite nel Chianti Colli Senesi, avendo valorizzato la loro denominazione, non producono praticamente più  Chianti, pur rimanendo nell’area di produzione per Legge.

Il Chianti, siamo onesti, soffre da decenni, ed è la denominazione più importante d’Italia in termini di quantità, c’è il dovere di tutelarla nelle singole zone e non solo in una immagine complessiva che fa comodo a pochi e distrugge tanti altri.

Pertanto ritengo che sia basilare arrivare ad obbligare l’indicazione della zona specifica, specie per la Riserva, e lasciare a denominazione Chianti solo le annate peggiori (2002), i vini da vigne fino a 10 anni (giovani) e quant’altro i tecnici riterranno opportuno per valorizzare la qualità e tipologia.

Certo zone, come Rufina, hanno fatto passi da gigante in questi anni ed in ogni zona ci sono delle aziende di riferimento interessanti che però mancano di un supporto  politico delle istituzioni. Si dovrebbe iniziare a fare promozione e degustazione per singole aree, a mandare messaggi forti per singole aree, a Consorzi attivi per singole aree, ecc.

Una cosa che ritengo faccia sorridere gli attenti intenditori è la dizione “superiore” per il Chianti (voluta non si sa da chi, anche se io lo immagino…), concessa ai vini che hanno una gradazione superiore rispetto al Chianti “generico”. Ma guarda caso (ecco la parte divertente, per non piangere) non può essere utilizzata da chi indica la zona specifica (sottozona), cioè è Superiore un Chianti generico e non può esserlo un Chianti Montalbano, tanto per fare un esempio.

Vale la pena di ricordare le sei zone( ora sono sette.. n.d.r.) del Chianti (oltre il Chianti Classico), perché chiunque le percorra e legga la storia enoica di queste zone fino alla fine dell’800, si renderà conto di quanto erano importanti e quanto lo potrebbero essere oggi, alla pari di altre zone Toscane, per il loro interesse paesaggistico, storico, per i vini che possono produrre.

Chianti Colli Aretini
Chianti Colli Fiorentini
Chianti Colline Pisane
Chianti Colli Senesi
Chianti Montalbano
Chianti Rufina

(le ho messe in ordine alfabetico perché nessuno si offendesse).
(Mancha il Chianti Montespertoli  n.d.r.)

Intanto si potrebbe dare la facoltà di indicare prima l’area (ad esaltarla) e poi la denominazione:“Colli Fiorentini – Chianti “(stessa grandezza su due righe.). E’ un esempio.

Un’altra cosa che la storia enoica del Chianti insegna è la differenziazione dei prodotti in tre fasce: Chianti, Chianti Riserva e Selezione particolare che può essere un IGT o un “cru” di Chianti (sempre meglio rispetto all’IGT dove inizia ad esserci una proposta ampissima e confusione per il consumatore, salvo i marchi affermati).

Questa differenziazione non è solo importante commercialmente (Chianti base in una fascia di prezzo da consumo e quindi ampia diffusione e prodotto tutti gli anni, Riserva solo nelle buone annate, “Cru” solo nelle grandi annate), ma anche tecnicamente, perché permette di ottenere i vini secondo la scelta delle uve e/o delle annate.
Le uve meno importanti nel vino base, le uve importanti nella riserva, le uve eccezionali nel “cru”.

Questa è chiarezza tecnica e di mercato e premierebbe sicuramente alla distanza. Invece molte volte per immagine e/o economia si punta a fare un solo vino (E le annate tipo 2002? E le uve delle vigne giovani? E le uve delle zone peggio esposte?), oppure a fare il “grande vino” anche in annate tipo il 2002, raccontando la storiella che in quella azienda non è piovuto. Si abbandona la Riserva, o si fa un “cru” IGT come rifiuto della DOC e DOCG e per cercare di personalizzare il marchio, ma oggi nella forte competizione degli IGT non è facile trovare la propria identità: quindi sempre meglio la strada delle DOC e DOCG: più chiara e più commerciale, specie sull’estero.

Anche qui lo insegnano i Francesi i “vini di Paese” non sono mai più importanti dei vini di appellazione.

Se leggiamo la storia fino alla fine del ‘700 i vini del Chianti nei mercati di qualità importanti di allora (Inghilterra in particolare) erano più stimati dei vini francesi, a conferma che la serietà imposta dal bando granducale di produzione, portava la nostra zona ad altissima considerazione. Oggi è considerata, ma la competizione è più forte e quindi più forte deve essere il messaggio di serietà tecnica, legislativa e commercial..

Non dimentichiamo che in Chianti si è inventato il fiasco leggero da trasporto (perché le botti nei lunghi viaggi di allora ”ciucciavano il vino”). Che abbiamo un patrimonio di bibliografia agricola ed enologica eccezionale, che a Firenze c’è il primo catasto viticolo visivo del 1700 (quadri del Bimbi nella Villa Medicea di Poggio a Caiano), che si sono avute le prime leggi di tutela (vedi Lega del Chianti), che si è avuto il primo Consorzio di tutela del vino, che si è inventato il “governo Chiantigiano” proprio per “sistemare” i vini tramite rifermentazioni con uve scelte appassite. Queste uve erano chiamate “viziate” per dare caratteri ai vini (Ciliegiolo, Mammolo, Colorino etc.). Inoltre in Chianti Classico è stato realizzata la prima ricerca di cloni selezionati di Sangiovese e Canaiolo Nero, tramite il progetto “Chianti 2000”. Non ci scordiamo che nel 1700 l’uso delle botti era disciplinato dai tecnici (enologi) secondo la tipologia del prodotto da ottenere, così come gli uvaggi.

Nessuna zona può vantare un patrimonio così importante di storia, di ambiente, di tradizioni e cultura enologica, e quindi va ravvivata per eccellere, per adeguarsi ai tempi ed all’attuale competizione internazionale.

 

 

 

Silvano Formigli

Quello che hai appena letto è un post scritto da un ospite speciale per Winesurf, che non troverai costantemente nel giornale.


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