Secondo tradizione sono le Foires aux vins in primo piano in questo numero: titolo grande di copertina e ben 100 pagine, in pratica la metà dell’intero fascicolo. Poi ci sono le degustazioni sistematiche : rivisitazione delle annate 2018 e 2019 dei grands crus classés di Bordeaux (a Bordeaux tocca anche la “Bouteille mythique” di questo mese, uno Château Trotanoy del 1961), sylvaner alsaziani e Pet Nat. La verticale di turno è quella di un grande alsaziano, la cuvée Sainte-Catherine grand cru Shlossberg del Domaine Weinbach, descritta da Pierre Casamayor: 100/100 alla grandissima annata 1990, ma sono ben otto le annate , da allora, che hanno raggiunto i 98/100. Il punteggio più deludente (si fa per dire)? I 96/100 dell’annata 2008
.L’Alsazia, raramente al centro dell’attenzione della rivista in questi ultimi anni, si aggiudica anche le pagine dell’enoturismo (yoga e degustazione alla Maison Huttard a Zellenberg, iniziazione alla biodinamica al Domaine Jean-Baptiste Adam a Ammerschwihr, accordi cibo-vino al Domaine Wach ad Andlau…). E poi: Camin Larredya e Clos Larrouyat a confronto con i loro bianchi secchi in una terra di vini moelleux, il Jurançon (ne parla Roberto Petronio nella sua serie “Une appellation, deux styles”), il terroir di Saint-Véran, nel Maconnais, “valeur montante” dello chardonnay del sud borgognone, visto da Sophie de Salettes, il dibattito “intorno a una bottiglia”, tra Alexis Goujard e Olivier Poels sul Marsannay 2019 del Domaine Bart.
Comincio dai sylvaner alsaziani. Da varietà più diffusa nella regione (nel 1980 il 22% delle superfici vitate), è andata via via riducendosi al 13% venti anni dopo e solo al 5% nel 2020, sostituito sempre più frequentemente dal pinot gris divenuto più di moda, e utilizzato in misura sempre maggiore per gli edelzwickers , i classici assemblage regionali. Le linee di resistenza sono state indubbiamente rafforzate dal riconoscimento di Zotzenberg de Mittelbergheim come grand cru nel 2005, nel quale il sylvaner rappresenta ancora oggi il 45% del vino prodotto, e dall’alto livello dei sylvaner di Zinnkoepflé. Eppure, come mostrano anche le ottime riuscite nelle annate calde, il sylvaner si è molto ben adattato al riscaldamento climatico.
Meno seduttivi dei riesling, i sylvaner rappresentano però dei vini con un grande potenziale qualitativo, fortemente identitari, minerali e adatti a un prolungato invecchiamento. Lo conferma la degustazione presentata da Romain Iltis, nel corso della quale sono stati assaggiati sylvaner di diversi terroir alsaziani degli ultimi decenni. La loro grande longevità la mostra, con i suoi 95/100, quello di Trimbach del 1976, di eccezionale potenza e concentrazione. Ma la soglia dei 95 punti, raggiunta anche dai grand cru Zotzenberg 2017 del Domaine Alfred Wantz e 2010 del Domaine Fernand Seltz, è addirittura superata dai 96/100 del sylvaner 1990 di Jean Becker e dai 97/100 del millesimo 2015 del Domaine Albert Seltz (12 ettari, tra cui 1,20 di sylvaner, in regime bio dal 1993), anch’esso uno Zotzenberg grand cru, a conferma della eccezionalità di questo terroir. Sono molte le cuvée che hanno oltrepassato e non di poco il limite dei 90/100, e, per limitarmi alle sole ultime due annate, vanno segnalate le cuvée (sempre Zotzenberg) 2019 del Domaine Haegi (94/100), Renaissance 2019 del Domaine Fernand Engel (92/100) e il sylvaner 2020 di Hubert Reyser (92/100).

Per chi non lo sapesse, esiste anche un sylvaner a bacca rossa: generalmente viene vinificato in bianco , assemblato al sylvaner bianco senza distinzione, ma c’è qualcuno che lo vinifica autonomamente: nel Domaine Hurst se ne produce uno di color rosé , denominato Sy’ Ro (per sylvaner rouge), mentre Étienne Loew ne fa uno dal colore più carico , in versione nature dal 2013, con il nome della figlia Marguerite.
Restiamo ancora in Alsazia, ma non solo, per parlare dei Pétillants Naturels, diffusi soprattutto in quella regione e nella Valle della Loira , nella quale sono nati (il nome, risalente agli anni ’90, è di Christian Chaussard, vigneron di quest’ultima), ma anche nel Beaujolais (ovviamente a base di gamay), nella Languedoc (in particolare a Limoux, dove impera il mauzac della Blanquette), e nel Sud-Ouest (Gaillac ).
Divenuti ormai popolarissimi, anche dietro la spinta del movimento dei vini naturali e del crescente interesse dei consumatori per questi vini , semplici e immediati, poco impegnativi, si ritrovano ormai nelle carte dei vini di moltissimi ristoranti e bistrot. Com’è noto, i pet nat sono dei vini effervescenti con pressione inferiore a 2,5 bars, prodotti col minor numero di sostanze aggiunte con il metodo cosiddetto ancestrale della fermentazione in bottiglia, senza ricorrere ad alcun dosage.
Sono prodotti molto liberamente in territori diversissimi e con le uve, principalmente a bacca bianca, più varie, generalmente commercializzati sotto la denominazione onnicomprensiva di Vin de France . Tuttavia, un paio di anni fa, a Montlouis-sur-Loire (una piccola, ma apprezzata AOC di chenin blanc) vi è stato un primo tentativo di iscriverli in un cahier de charges vero e proprio, all’interno della propria DOP, col nome Montlouis-sur-Loire- Pétillant Originel (il nome “naturel” non era utilizzabile per le ben note ragioni della contrarietà della DGCCRF, la Direction générale de la concurrence, de la consommation et de la répression des fraudes). Una rapida segnalazione dei migliori, partendo dalle regioni nelle quali sono pià diffusi, Alsazia e Valle della Loira. Nella prima, raggiungono i 91/100 la cuvée Katz’en Bulles del Domaine Binner (riesling) e lo Chante Pinot di Josmeyer (pinot blanc, auxerrois e gewurztraminer). Nella Valle della Loira, sempre a quota 91 sono il Vouvray Plaisir Ancestral 2019 di Vincent Careme, il Des Boires et des Bulles 2020 di Bruno Rochard (chenin dell’Anjou) e il Bulles de Pinot 2020 di Paul Prieur et Fils (pinot noir del sancerrois). Del tutto atipica (chardonnay associato a viognier e sauvignon blanc di Cahors), la cuvée Waz-K 2020 del Clos Troteligotte raggiunge anch’esso il punteggio di 91/100. Molto piacevoli i pet-nat di Limoux a base di mauzac (90/100 quello del Domaine Jean-Louis Denois ).
Eccoci dunque ai grands crus di Bordeaux delle annate 2018 e 2019 rivisitati un anno dopo dalla RVF. Ne parlano Karine Valentin, Pierre Citerne, Roberto Petronio e Olivier Poels. Mi asterrò dal riportare i punteggi delle singole cuvée, regolarmente tutti ben oltre i 90 punti, e, per i crus più importanti, quasi sempre superiori ai 95 (100/100 solo per lo Château Lafite-Rotschild 2018, 99 e 98/100 per un folto stuolo di fuori-classe), ma mi limiterò ad alcune osservazioni generali. Entrambe sono state grandi annate, sia pure molto diverse, ed entrambe, pur se adatte anche ad un prolungato invecchiamento, tali da poter essere apprezzate anche in gioventù (in questo momento i vini del 2018 appaiono più pronti). Purtroppo, specie la vendemmia 2018, colpita da un attacco mai così intenso della peronospora, con rese piuttosto basse, in ciò differentemente dalla Borgogna, nella quale il 2018 è stato uno dei millesimi più generosi di sempre.
Vini eccellenti, ma abbastanza atipici rispetto al passato, a causa dello stravolgimento delle condizioni climatiche, quelli del 2018, di grande struttura e concentrazione, ma anche molto carichi di alcol, mentre quelli del 2019 risultano più freschi, grazie ad una migliore preservazione delle acidità, più eleganti e più leggeri di alcol. Nel generale riscaldamento della regione, un ruolo importante è stato svolto dai cabernet, che reagiscono ad esso meglio del merlot, e soprattutto del cabernet franc, il cui apporto si avverte soprattutto nella Rive Droite, dove ha ripreso parte dello spazio che gli era stato sottratto dal merlot. La pandemia aveva indotto nei produttori i pensieri più cupi, rafforzati dal rinvio delle primeur dello scorso anno, ma una saggia politica dei prezzi ha poi dissipato le loro preoccupazioni, facendo anzi da trampolino di lancio per la vendemmia successiva.