Quel misero, povero, quasi ininfluente 15-20% chiamato anche vino5 min read

I dati proposti dal convegno fiorentino sul costo reale di una bottiglia di Chianti Classico e riportati qui in maniera asettica  dal nostro Pierlorenzo Tasselli stimolano delle riflessioni non da poco.

Riflessioni che assumono subito un peso notevole se si parte dalla fine del percorso, cioè da quanto io, consumatore finale, pago in enoteca una bottiglia di Chianti Classico: Mediamente attorno ai 16-17 euro. Di questi 16-17 euro, da quanto è uscito dal convegno fiorentino, solo (se va di lusso…) circa 3 spettano al valore del vino nella bottiglia. In termini desueti: il valore creato dall’agricoltore con il suo lavoro è di (abbondiamo) 3 euro mentre il plusvalore e tutte le strutture pesano per i rimanenti 13-14.

Ne vogliamo parlare? Prima di parlarne però vediamo anche a quale prezzo questa benedetta bottiglia di chianti classico dovrebbe essere venduta dall’azienda per guadagnarci qualcosa: la cifra è di (per l’annata 2009) 6.46 € ma purtroppo la media reale di vendita è molto più bassa e si attesta a 4.93€. Lascio da parte il prezzo medio dello sfuso (1.71!!! per un chianti classico) perché avrebbe bisogno di un discorso a parte e torno a bomba.

Si sostiene, forse anche giustamente, che il vino è caro e che questo è uno dei motivi per cui se ne beve sempre meno. Niente da eccepire, specie se vai a ristorante e per una bottiglia di vino non certo eclatante ti ritrovi a spendere da 20 a 25 euro. Se siete in due il prezzo del vino grava spesso quasi come quello di un terzo commensale. Ora, mettiamo che a ristorante, in due, vogliate bere una bottiglia di Chianti Classico: ad andare bene spenderete 20-25 € per un prodotto che, in natura ed al produttore, costa meno di 3€, quindi quasi il 15% del prezzo da voi pagato.

E’ possibile che non si possa fare niente per cercare di rimpicciolire questo moloch del 80% che pesa come un macigno sul mondo del vino? Sono d’accordo che, per equità si dovrebbe anche fare uno studio serio sui costi di commercializzazione e distribuzione ma non si può negare, avendo davanti questi dati, che l’agricoltore è quello che in questa filiera non solo guadagna meno ma soprattutto ha i margini minori per poter diminuire i prezzi. Per questo l’agricoltore che non vuole fallire deve fare anche il venditore e il distributore del suo prodotto.

Nello studio si parla di Chianti Classsico ma credo che le percentuali rilevate siano riscontrabili anche in altre denominazioni. Magari cambieranno i prezzi ma i rapporti, più  o meno, rimangono invariati.

Avendo parlato di questi temi con amici ho fatto la figura di quello che scopre l’acqua calda: “Ma lo sanno tutti che il costo maggiore è sempre quello della distribuzione!!” mi sono sentito dire più volte. Va bene, questo lo sapevo, ma non pensavo che fosse così alto e che mettesse il reale motivo per cui uno compra una bottiglia di vino, cioè il vino, in una posizione talmente defilata, assolutamente minoritaria e quasi ininfluente sul costo finale della bottiglia.

In realtà e questa è la cosa brutta, a cui è difficilie abituarsi, a cui non è facile dare un senso se i numeri sono questi: quando compriamo un chianti classico (ma anche altri vini, come detto) acquistiamo bottiglia, etichetta, tappo, marketing, distribuzione, commercializzazione, pubblicità  E ANCHE 750 grammi di un prodotto della terra chiamato vino. Il primo motivo dell’acquisto diviene, in ordini di costo, praticamente l’ultimo. Il cosiddetto valore aggiunto di una bottiglia di vino diviene il vero valore, mentre il vino è schiacciato in un angolo.  “E’ la stampa , bellezza!” ma questa "stampa" (e questi sono i numeri)non fa certo il bene di chi il vino lo produce VERAMENTE.

Il bello è che  marketing, commercializzazione, pubblicità, praticamente tutta la “sovrastruttura”, si rifanno solo a quella parte minimale, a quel prodotto che in termini percentuali varia dal 15% al 20% , ma che il rimanente 80-85% presenta come se contasse il 100%. Non vi sembra strano? Non vi sembra ci sia qualcosa da cambiare in tutto questo, e quando parlo di “tutto questo” non mi riferisco solo al Chianti Classico ma a tutto il mondo del vino.

Mi è capitato sott’occhio un ‘articolo sopra un convegno con temi enoici organizzato dal Monte dei Paschi di Siena. L’articolo sottolineava che i risultati di uno studio commissionato dalla banca stessa si augurava (per non dire che lo vedeva come unica soluzione) l’aumento del marketing e della pubblicità. Non della qualità del prodotto finale (data sempre per scontata, troppo per scontata) ma di una parte del resto,  della quota dell’85%: a scapito di cosa?

Facendo parte del 80-85% capisco di darmi la zappa sui piedi, ma un mondo definito agricolo dove il prodotto agricolo NELLA REALTA’ conta percentualmente meno di molte altre voci, rischia di perdere di vista il vero valore; quello del miglioramento (o della salvaguardia) della qualità proprio di quel prodotto da cui tutto nasce.

Parlavo con un importatore brasiliano che, di fronte all’etichetta di un vino toscano mi diceva “Sai cosa si vende da noi? La scritta “Toscana”, poi può essere più buono o meno buono, basta che abbia il nome.” Esempio lampante di come il “grande 80-85%” veda il piccolo 15-20%: un nome su  un’etichetta. 

Pierlorenzo Tasselli
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0 responses to “Quel misero, povero, quasi ininfluente 15-20% chiamato anche vino5 min read

  1. sarebbe accettabile se le scritte in etichetta fossero almeno tutelate, controllate e difese sui mercati internazionali.
    ma non è cosà¬.
    per quanto riguarda il fattore costo (del “liquido”): la vera tragedia è che per una legge economica ben nota la moneta cattiva scaccia quella buona, per cui sono i vini di qualità  che devono scendere ai prezzi dei vini scadenti, costringendo i produttori a peggiorare anzichè migliorare la qualità , e i consumatori “ignoranti” a bere peggio

  2. Credo che sia un calcolo ottimistico questo 15/20%. In Piemonte, come nel resto dell’Italia, tanti produttori si sognano il 15%, con la crisi ed il crollo del prezzo del vino sfuso ormai in molte bottiglie al ristorante non si arriva al 10% per il vino.
    Soluzioni? In Canada molti ristoranti preferiscono che il cliente si porti il vino da casa e si fanno pagare per il servizio (uso dei bicchieri). Da noi e’ impossibile provocherebbe la rivoluzione.
    Consiglio per i consumatori: dedicate qualche fine settimana (per chi gia’ non lo fa) a visitare le cantine dove si produce vino con le proprie uve, potrete acquistare bene spendendo molto meno, e all’agricoltore forse rimarrebbe piu’ del 50% per il vino, e il consumatore risparmierebbe parecchio.
    I ristoranti? fortunatamente ne conosco alcuni molto seri e onesti che prendono i vini direttamente dalle cantine e che incredibilmente pagano senza chiedere sconti. Forse noi produttori dovremmo fare una guida che elogi questi ristoratori.

  3. Egregio Sig. Macchi,
    sono arrivato al mondo del vino da relativamente poco e nel mio approccio ho sempre il timore di apparire dissacrante. L’aggettivo è corretto in quanto mi rendo conto che vi sia in questo mondo un alone di sacralità  che spesso finisce con lo scontrarsi con la “cruda verità ” e la realtà  dei fatti. In particolare vi sono almeno un paio di “crude verità ” che vengono mal digerite da chi ama il vino ed il suo mondo:
    1) Il vino è un prodotto che non si discosta dalle fredde regole dell’economia. Se confrontassimo i soli costi diretti di produzione di un capo di abbigliamento (giusto per fare un esempio, ma lo stesso vale per qualunque prodotto destinato al consumatore privato) con il prezzo di vendita al pubblico, ci renderemmo conto che la situazione sarebbe molto probabilmente peggiore, nel senso che non si arriverebbe nemmeno a quel 15% di cui stiamo parlando.
    2) in un mondo iper competitivo, con una produzione iper frammentata e di qualità  media sempre migliore qual’è quello del vino in Italia, è inevitabile che i costi legati alle attività  commerciali e di marketing acquisiscano un’importanza sempre maggiore. Se le aziende fossero 10, non vi sarebbe necessità  di grandi investimenti in queste aree: il consumatore avrebbe la possibilità  di testare e valutare direttamente i prodotti, arrivando a fare le proprie considerazioni e scelte. Nella realtà  sappiamo invece che difficilmente troveremmo un settore con una produzione tanto varia e frammentata e conseguentemente difficilmente troveremmo un ambito in cui il consumatore finale sia cosଠin difficoltà  nel fare le proprie valutazioni e scelte. Ecco quindi che – vista l’impossibilità  delle aziende di stare ad aspettare un cliente che di propra iniziativa difficilmente arriverebbe – diventa fondamentale per sopravvivere e possibilmente crescere, andare a “caccia” del proprio cliente investendo in ambito commerciale e marketing, molto più di quanto sia il costo diretto di produzione del vino.
    3) Da sempre ed ovunque nel mondo (sento spesso criticare la ristorazione italiana, magari a ragione, ma senza mai specificare che molto spesso, in molti altri Paesi, la situazione è peggiore) si è consolidata la strategia da parte della ristorazione di fare conto sui margini del vino quale componente fondamentale per il raggiungimento del profitto aziendale. La sensazione è che ormai la ristorazione giudichi impossibile riuscire a “guadagnare” su quello che dovrebbe essere il core business del ristorante (il cibo) e faccia conto sugli ampi margini applicati sul vino per recuperare in profittabilità 

  4. Caro Marcello, capisco perfettamente che questa mia uscita può sembrare ingenua. Sono convinto anch’io che esistono leggi di mercato a cui tutti i produttori, dalle mutande al vino, devono adeguarsi. Però c’è sempre, in una filiera commerciale, quello che ci guadagna di più o è meglio dire, quello che ricarica di più. Con il mio articolo volevo evidenziare che non sono certo i produttori di vino “i ricaricatori” in questione. Lei mi parla dei ristoranti e non posso non pensare che forse un ricarico del 150-200% non sia qualcosa di assolutamente dissennato. Anche il solo 100% rischia di essere eccessivo e vorrei sapere se un ristoratore ricaricasse le materie prime per i suoi piatti con le stesse percentuali del vino a che prezzi arriverebbe un pranzo a ristorante.
    Ma, non avendo dati in materia mi fermo, ribadendo che le leggi di mercato sono vere e dure ma non mi sembra giusto che queste leggi penalizzino moltissimo i produttori, a cui si attribuiscono (mi pare di cpaire ingiustamente9 molte delle cause dell’alto costo del vino.

  5. Da molto tempo il prezzo finale non solo del vino ma anche moltissimi altri alimenti è determinato non dal prodotto. Siccome la situazione è una bestemmia insostenibile, sarebbe interessante se tutti i piccoli produttori, uniti, smettessero di produrre cibo. Forse qualcosa cambierebbe, come è cambiato con gli scioperi ai tempi delle riforma agraria. (Quelli grossi, i produttori di cibo industriale, di loro non ne parlo…)

  6. Gentile Carlo,
    l’articolo è interessante e anche lo studio. Solo che a leggere il primo senza guardare i dati del primo verrebbe da pensare alla parte di marketing commercializzazione come preponderante in modo scriteriato. Se invece si guardano i dati riassunti dello studio si capisce che ci sono tanti costi, non attribuibili alla parte di commercializzazione, che pesano e pesano parecchio: dalle barrique (che non sono inseribili alla voce comemrcializzazione) all’ammortamento degli immobili (idem con patatine). Il “business” (uso questa parola in questo caso, visto che di questo aspetto si sta parlando qui) del vino è complesso.
    E’ vero quel che dici, ovvero che la promozione costa e spesso è slegata dal reale valore del prodotto, però non in maniera cosଠsquilibrata. Ci sono altri “business” (pensa all’abbigliamento sportivo per citarne uno) dove il marketing e la promozione pesano assai più che nel vino nel definire il costo finale del prodotto.
    Un cordiale saluto,
    Tommaso Ino

  7. Mi pare di aver capito che i costi della barrique gravano per un 10-15% in più sul vino finito. Sono d’accordo che le mutande prodotte in India dalla griffe di turno costano solo di pubblicità , commercializzazione e marketing, ma speravo che per il vino fosse diverso, visto che è un prodotto diverso, con una storia ed un mercato “maturo”. Purtroppo mi sbagliavo.

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