Interviste Covid-19. Carlo Garofoli: “Fino agli anni ’90 se piantavi più di 1660 piante ad ettaro non ti davano la Doc.”9 min read

Le nostre interviste a chi ha fatto la storia del vino italiano ci portano nelle Marche ad incontrare Carlo Garofoli  (titolare, assieme al fratello, della Casa Vinicola Gioacchino Garofoli). Dalle sue labbra ascoltiamo la storia, dagli anni ’50 del secolo scorso fino ad oggi, del Verdicchio dei Castelli di Jesi e di un territorio adesso molto apprezzato per i suoi vini,

Winesurf “Prima di tutto nella tua zona come sta andando con il Coronavirus?

Carlo Garofoli “Qui a Osimo non abbiamo grossi problemi.E’ nella zona di Pesaro, quella a nord, che ci sono stati i guai maggiori.”

W. ” Meno male. Entriamo subito in argomento: quando hai iniziato a lavorare in azienda?”

C.G. “Nel 1972-1973, anche se, abitando sopra alla cantina, praticamente ci sono sempre stato.”

W. “Ma la cantina dov’era?”

C.G. “Dove si trova adesso, dove è sempre stata ( a pochi chilometri da Loreto n.d.r.).”

W. “Ma, quando eri piccolo, cosa produceva?”

C.G. “I miei, negli anni 1952-1954, sono stati i primi  nella zona a vendere vino imbottigliato, con una bottiglia che si chiamava “Verbano”.  C’era in vari formati, da mezzo litro, da un litro e credo anche da due.”

W “E com’era fatta questa bottiglia?”

C.G. “Era cilindrica con un collo corto, tipo bottiglia di birra. Era originale perché, a parte che era pesantissima, aveva l’etichetta in vetro, su cui era scritto “Vino da pasto” per cui non c’era bisogno dell’etichettatrice. Fu una mossa vincente di mio padre e di mio zio perché allora non c’era vino imbottigliato, andavi a farti riempire un bottiglione  in osteria o si andava a comprare una damigiana di vino  in campagna. Invece  queste bottiglie  erano vendute nei negozi di generi alimentari in quanto confezionate e sigillate con  un tappo a strappo e sotto con un tappo corona.”

W. “E che cosa c’era dentro a queste bottiglie, Verdicchio?”

C.G. “No, no, c’era  quella col vino bianco e quella col vino rosso. Forse ci sarà stato anche un po’ di vino locale ma era un mix di vini che arrivavano da altre parti. Questo succedeva quando io avevo 7-8 anni (Carlo è del 1947 n.d.r.).”

Zona del Verdicchio di Jesi, panorama

W. “E quando entrasti ufficialmente in azienda nel 1972 come era cambiata la situazione?”

C.G. “Facevamo ancora una bottiglia  tipo Verbano ma con l’etichetta in carta, poi una bottiglia più elegante con il tappo a vite con dentro quelli che poi sarebbero diventati vini IGT, perché si parlava di Trebbiano delle Marche, Montepulciano delle Marche e Rosato delle Marche. Erano degli IGT ante litteram.”

W. “Niente Verdicchio?”

C.G. “In quel momento facevamo anche il Verdicchio nella bottiglia ad anfora e il Rosso Conero. Non ci scordiamo degli spumanti, che cominciò a farli mio padre negli anni ’50. C’era scritto “Da uve moscato” e quello che ebbe un grande successo era uno spumante  metodo charmat  in due versioni, secca e dolce, che allora si chiamava amabile. Aveva un nome abbastanza particolare, perché si chiamava Saint Moritz.”

W.”Saint Moritz? (scherzando) Del resto è una localita molto vicina a Osimo. Ma com’era la situazione dei vigneti nei primi anni ’70?”

C.G. “C’erano soprattutto piccoli appezzamenti. Già nei primi anni ’70 erano attive le DOC del Verdicchio dei Castelli di Jesi e del Rosso Conero (rispettivamente del 1968 e 1967. N.d.r.) e il disciplinare recitava che il tipo di allevamento doveva essere “quello tradizionale”, che purtroppo non aveva niente di tradizionale e voleva dire piantare viti a 3X2 metri. Era stato studiata a tavolino per poterci entrare con i vecchi modelli di trattori.”

W. “Quindi quante piante per ettaro?”

C.G. “Solo 1660!”

W. “Correggimi se sbaglio ma è vero che fino alla fine degli anni ’80 c’era un funzionario della Camera di Commercio di Ancona che se piantavi più fitto non ti riconosceva il vigneto a DOC? ”

C.G. “Vero! Ad inizio anni ’90 qualcosa era cambiato ma per un ventennio se c’erano più piante non ti dava la DOC.”

W. “Quindi era impossibile che la  situazione si potesse  evolvere.”

C.G. “Non c’era modo. Pensa che i piccoli appezzamenti che avevano i contadini, quelli prima della DOC,   erano magari piantati 1×1 e facevano poca uva per pianta, mentre  per la DOC si utilizzava un Sylvoz con un cordone lungo due metri, che i contadini non sapevano lavorare bene, quindi era quasi impossibile fare qualità.”

W. “Ma, praticamente, come si svolgeva il mercato delle uve? I  contadini vi portavano l’uva con accordi preventivi? Facevate  dei contratti?”

C.G. “Non facevamo dei contratti. Mi ricordo che portavano l’uva ma senza nessuna regola. Magari qualcuno non la portava per qualche anno e poi tornava a conferircela. Non c’era una regola, si contrattava l’uva anno per anno, alla consegna.”

W.“Negli anni settanta, per quanto riguarda il Verdicchio dei Castelli di Jesi,  quante aziende c’erano che imbottigliavano con una propria etichetta?”

C.G. “Negli anni ’70 e fino all’inizio degli anni ’80 quando volevamo fare una panoramica di chi imbottigliava, con 7-8 etichette già il quadro era quasi completo.”

W. “In che anni c’è stata la vera svolta nel Verdicchio dei Castelli di Jesi?”

C.G. “Per quanto ci riguarda già nel 1974 cominciammo a separare il verdicchio dalla  malvasia, perché allora il disciplinare parlava di un 20% di malvasia nell’uvaggio, ma il 20% era riferito alle piante e dato che la malvasia produceva molto , con grappoloni enormi, spesso questo 20% diventava anche 30% in quintali d’uva.”

W. “E come lo chiamasti quel vino?”

C.G. “Era sempre Verdicchio dei Castelli di Jesi nella bottiglia a forma di anfora (la prima bottiglia ad anfora venne adottata da Fazi e Battaglia del 1954 n.d.r.)  però cambiammo il modo di farlo, usando solo verdicchio.  Considera che tutti allora utilizzavano l’anfora ma ognuno la personalizzava a modo suo, tanto che c’erano quasi 25 tipi diversi di anfora sul mercato. Poi nel 1981 mi misi intesta di fare un Verdicchio più importante  dirandando l’uva, cosa allora fuori da ogni regola, tanto che i salariati mi guardavano come se fossi scemo e volessi buttare via la grazia di dio. Erano periodi in cui con rese attorno ai 150 q.li ad ettaro e poca tecnologia in cantina il verdicchio non durava un anno. Così  arrivammo a fare al massimo 80 q.li ad ettaro e ad usare una bottiglia bordolese bianca e leggera.”

W. “In quegli anni il numero di produttori-imbottigliatori era aumentato?”

C.G. “Si c’erano un po’ più cantine ma il panorama era sempre quello del vino in anfora.”

W. “Quando sono incominciati ad esserci più produttori, quando il Verdicchio dei Castelli di Jesi è diventato un vino “moderno?”

C.G. “Da quegli anni in poi. Da allora tutti i produttori storici iniziarono ad abbinare all’anfora una bottiglia diversa per un Verdicchio dei Castelli di Jesi di qualità superiore, che dopo una quindicina d’anni sarebbe diventato proprio “Superiore” nel disciplinare. E lì cominciò a cambiare ma la vera svolta ci fu negli anni ’90, quando arrivò anche la tecnologia, con la pressa soffice, la pulizia dei mosti, l’utilizzo delle basse temperature per la fermentazione.”

W. “Nei primi anni ’90 ci furono anche dei cambiamenti nella viticoltura?”

C.G. “No, non si erano fatti tanti passi avanti: il sylvoz  si era tramutato in un doppio, triplo, anche quadruplo archetto tirato tra le piante, tanto lo spazio purtroppo c’era.”

W. “E quando è cambiato il discilinare per poter mettere più piante per ettaro?”

C.G. “Di preciso non me lo ricordo ma sicuramente nei primi  anni ‘90. Nel 1991 noi uscimmo con il Podium. Considera che fino dal 1984 avevo iniziato a provare le barriques e le prime uscite ci furono nel 1986-87. Poche bottiglie  ma criticatissime dagli altri produttori perché snaturava l’immagine del verdicchio.”

W. “Il Verdicchio dei Castelli di Jesi è uno dei vini più conosciuti in Italia, che però, se mi permetti il gioco di parole,  ha il peggior rapporto qualità-prezzo… per un produttore. Cioè non è riuscito a far crescere molto, come invece è successo in altre zone, il suo valore. Perché pensi sia accaduto questo?”

C.G. “Ho sempre detto che il Verdicchio dei Castelli di Jesi non riesce a decollare perchè gli rimane sempre “la coda” delle bottiglie di basso prezzo attaccata al terreno. Inoltre paga la storia dell’anfora, che prevedeva numeri molto grandi e qualità non eccelsa.”

W. “Ci sono ancora diversi Verdicchio in anfora anche adesso?”

C.G. “Per certi mercati ce l’abbiamo noi e ce l’hanno un po’ tutti, ed è sempre il Verdicchio dei Castelli di Jesi che costa meno. Purtroppo l’anfora ha un’immagine storica anche se questa immagine non è brillante.”

W. “Credo di essere stato uno dei primi giornalisti, nel 1992-1993,  ad essere invitato dall’allora Assivip (associazione di viticoltori che allora curava la promozione dei vini marchigiani. n.d.r.) nelle Marche e mi ricordo benissimo che tu mi portasti a pranzo alla Madonnina del Pescatore, dove uno sconosciuto Moreno Cedroni ci fece mangiare divinamente ma ci portò prima il secondo piatto e poi il primo. Questo per dire che in quegli anni c’era già un’organizzazione per la promozione del vino e una ristorazione che cominciava a farsi valere, e allora perché il Verdicchio dei Castelli di Jesi e il suo territorio non è diventato quello che poteva diventare?”

C.G.“Le Marche non sono mai andate di moda, nemmeno nelle Marche stesse. Nei ristoranti marchigiani negli anni ‘70 o ‘80 si trovava poco vino marchigiano. C’era la moda dei friulani o di vini di altre zone. Non c’è mai stato, fino a poco tempo fa, un attaccamento al territorio da parte dei ristoratori marchigiani.”

W. “Parliamo di spumanti metodo classico a base verdicchio: anche loro, pur avendo un ‘ottima qualità, non sono riusciti ad affermarsi dal punto di vista numerico sul mercato.

C.G. “Pensa che il primo  nostro metodo classico era del 1974 e uscì nel 1977. Li facciamo anche adesso ma dello spumante metodo classico da queste parti non è mai importato niente praticamente a nessuno. Io credo che  lo spumante debba essere spinto da chi ha una grande forza e produce solo quello. Se ci pensi i nomi famosi fanno solo metodo classico o quasi.”

W. “In Alto Adige puntano su delle “iperselezioni” messe in commercio dopo diversi anni, in Collio stanno pensando ad una DOCG, nel Soave ci si concentra su dei cru. Quale pensi sia il futuro del Verdicchio dei Castelli di Jesi?”

C.G.“Da noi è difficile puntare su bottiglie molto costose e invecchiate diversi anni  perché non sei altoatesino o friulano e il  mercato non ti riconosce.”

W. “E quindi su cosa deve puntare il Verdicchio dei Castelli di Jesi in futuro?”

C.G. ” Per me deve puntare su dei grandi esperti pubblicitari che capiscano e sappiano come rilanciare questo vino. Magari costerà, anche tanto, ma sarà necessario.”

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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