Interviste al contrario. Lorella Antoniolo: fondamentale mettere l’esperienza al servizio degli altri12 min read

Questa intervista è stata registrata prima della tremenda grandinata che ha colpito Gattinara nei giorni scorsi. Approfitto quindi per dire che siamo vicini a tutti i produttori colpiti. Forza ragazzi!

“Buongiorno Lorella, ho tantissime  domande .Partiamo  dalle tue bottiglie, che non sono leggerissime: hai mai pensato di usare bottiglie più leggere?”

“Quella del rosato, del bianco e del Coste della Sesia sono più leggere di quelle delle  Riserva di Gattinara. Su questi vini continuiamo ad utilizzare quelle perché il vetro è migliore, ci sono meno problemaidi rotture e abbiamo una migliore conservazione del vino. Non è stata una disattenzione verso l’ambiente ma una scelta, magari sbagliata, ma dovuta ad una migliore conservazione e preservazione del nostro prodotto.”

“Ma questo vino lo vendi più in Italia o all’estero?”

“Pre-covid o dopo il Covid?”

“Diciamo in tempi normali.”

“In tempi normali facciamo il tra il 70% e l’80% all’estero, perché abbiamo anche mercati che non sono storici e consolidati e ogni anno acquistano e ritirano. Il resto va in Italia e in piccola parte nel nostro punto vendita in azienda. Col Covid è diminuita la percentuale Italia ed è aumentato l’estero.”

“Tu hai parlato delle Riserva di Gattinara, ma il Gattinara “base” non lo fate più?”

“No, perché in realtà il nostro Gattinara “base” è sempre stato una Riserva, perché rispettava in pieno le caratteristiche richieste dal disciplinare, però per non fare confusione avendo noi altre riserve non ce l’avevamo mai scritto. Un po’ come un laureato ma non scrive “dot.” Sul biglietto da visita. Poi  però alcuni importatori che conoscevano questa storia hanno incominciato a chiedere di scriverlo sull’etichetta e così prima di uscire con la 2015 abbiamo deciso di aggiungerlo in etichetta.”

“Ho visto che il Rosato è a 13.5°, altri vini a 14° e addirittura uno è a 14.5°. Com’è cambiata la situazione in vigna  a Gattinara dal punto di vista dell’aumento delle temperature?”

“Quando ero ragazzina mi ricordo che il nonno, per vinificare, doveva sempre scaldare i locali altrimenti le fermentazioni non partivano e comunque negli anni ’70 quando arrivavi a 12.5° festeggiavi. Ora in alcune annate fai fatica a stare sotto i 14°. In questi giorni  stiamo viaggiando con temperature già molto alte: a Gattinara nel mese di giugno 30/32° non si erano mai visti.”

“E da quanti anni è che avete queste temperature?”

“Dipende dall’andamento dell’annata, mai uguale, comunque le estati così calde le abbiamo da almeno 10 anni.”

“Mi viene da pensare che se dalla Langa sono arrivati diversi produttori per piantare nelle vostre zone “più fresche”, figuriamoci com’è la Langa.”

“In Alto Piemonte abbiamo terreni più freschi  grazie a composizioni sia sabbiose che rocciose, inoltre i pH dei terreni sono diversi. Anche dal punto di vista climatico, con un escursione termica giorno/notte più elevata, con la Val Sesia vicina che porta maggiori precipitazioni, anche se purtroppo hai più rischio grandine (Purtroppo è drammaticamente vero n.d.r.) ad oggi siamo avvantaggiati rispetto alla Langa.”

“Se ti dessero la bacchetta magica e con quella potessi avere 5-10 ettari di vigneto, dove li prenderesti in zona?”

“Non li voglio 10 ettari perché sono troppi e sconvolgerebbero l’organizzazione aziendale. Comunque adesso ne pianto 2 che erano previsti da tempo.”

“Cambio la domanda: con la bacchetta magica potrai avere un solo ettaro, dove lo vorresti in Alto Piemonte?

“Se penso ad un ampliamento aziendale è ovvio che lo vorrei a Gattinara, se invece lo facessi come Lorella, facendo una ipotetica nuova azienda, allora non lavorerei di nuovo sui porfidi, quindi non andrei per esempio a Boca, ma preferirei la zona del Bramaterra o magari cambierei completamente clima e suolo e andrei nelle Colline Novaresi, sperimentando magari anche qualche altro vitigno storico locale. Ma queste sono tutte fantasie che non credo proprio si avvereranno.”

“A proposito di Colline  Novaresi e Coste delle Sesia, pensi possano diventare a tutti gli effetti delle “Doc di ricaduta” tipo il Langhe Nebbiolo o vedi per loro un futuro diverso.”

“E’ di dominio pubblico e quindi te lo dico: il consorzio sta lavorando per fare un’unica Doc  territoriale che dovrebbe inglobare le due denominazioni. Questo creerà una “macro Doc” con tutte le caratteristiche delle Doc attuali e che potrà permettere anche altri tipi di produzione che adesso non sono contemplate.”

“A quali produzioni ti riferisci?”

“Allo spumate metodo classico, per esempio.”

Quindi queste due denominazione potranno avere altre strade.

“Certo ma sempre dentro i confini delle  DOC. Inoltre permetterà a varie cantine di non vederla come una Doc di ricaduta perché non lo è: per molte è la principale  e deve essere valorizzata.”

“Quali denominazionei dell’alto Piemonte negli ultimi 7-8 anni ha fatto per te i maggiori passi in avanti, non solo per qualità ma per numero di produttori in crescita, visibilità etc.”

“In questi ultimi anni sono cresciute quasi tutte le doc di almeno un 10%, tranne Sizzano e Fara che hanno avuto un momento di stasi ma dove adesso stanno nascendo nuove aziende e nuovi vigneti. Sicuramente è cresciuta tanto Gattinara  grazie a molti investimenti fatti, ma anche Ghemme, Lessona e Bramaterra hanno fatto grossi investimenti e pure nella zona del Boca ne hanno fatti abbastanza. In termini qualitativi posso dire che c’è una forte volontà di una grande fetta di produttori a lavorare molto bene e sono convinti che anche gli altri si accoderanno. C’è ancora qualcosa da aggiustare  ma nemmeno Dio è riuscito a fare tutto in un giorno.”

“Voglio precisare che ti ho fatto questa domanda non tanto come Presidente del Consorzio, perché non lo sei più, ma come produttrice esperta di comunicazione che da anni si sta spendendo molto per portare avanti l’Alto Piemonte e che lo conosce molto bene.”

“Aggiungerei, se mi permetti, che oramai non ci sono più tante persone che hanno vissuto la storia dell’Alto Piemonte dall’inizio: ci sono tanti giovani per fortuna, ma che comunque non hanno visto e conosciuto l’intero percorso, quello che è partito dalla crisi del metanolo e ci ha portato ad oggi. Io l’ho vissuto.”

Gattinara nel 1922

“Usare per una signora il termine “memoria storica” è un po’ brutto …”

“Ma invece è la verità  e inoltre poterlo dire dopo il Covid  è anche una bella fortuna. Per me ogni ruga e ogni anno sono esperienze in più  e credo sia fondamentale mettere queste esperienze al servizio degli altri, altrimenti a cosa servono?”

“Invece di esperienza parliamo di ettari: quanti ne avete come azienda?”

“Abbiamo circa 20 ettari di cui circa 14 ettari vitati, comprendendo strade, capezzagne etc.”

“E quante bottiglie fate?”

“Dipende dagli anni: considera che abbiamo rese piuttosto basse, attorno ai 50 quintali ad ettaro. Quindi considerando le varianti grandine (purtroppo!  n.d.r.) cinghiali, tassi, caprioli e cervi non abbiamo mai superato le 60.000 bottiglie all’anno e quasi sempre ci avviciniamo più alle  50.000.”

“Quindi se per caso un anno non ci fossero tutte queste “varianti” non sapreste dove mettere il vino.”

“Certo (e si mette a ridere) in teoria si, ma visto che non ci importa produrre 80 quintali ad ettaro e non mi interessa la casa o lo yacht a Montecarlo o la Ferrari,  potremmo arrivare a farne, al massimo 60.000, ma lì ci fermiamo.”

“A proposito di numero di bottiglie, sulla retroetichetta del San Francesco e dell’Osso di San Grato hai scritto quintali, brente e bottiglie? Perché solo su queste due?”

“Perché quella era una retro ideata da mia madre quando ha iniziato a fare i cru nel 1974. All’epoca era una scelta difficile e coraggiosa, anche perché in quegli anni tanti cru a giro per l’Italia non ci stavano. Così, in accordo con Gino Veronelli, caro amico a cui devo dire grazie per tutta la vita perché convinse mia madre a fare questo passo dicendole “Valorizza le tue vigne!”, imbottigliò le singole vigne. Quindi i cru sin dal 1974 sono in bottiglie numerate.”

“Nel mondo del vino e non solo ci sono esempi di aziende matriarcali e patriarcali: la vostra la potrei definire “fratelsorellare o sorelfratellare.” Questa divisione dove tuo fratello pensa alla parte tecnica e tu pensi al resto, come funziona?”

“Funziona bene anche se ogni tanto mio fratello, quando discutiamo un po’,  mi dice che curando il commerciale non faccio praticamente niente.”

“Ma tu in vigna non lavori?”

“In vigna vado solo a vendemmiare e ad accompagnare le persone in visita, anche se ogni tanto faccio qualcosa, come domenica scorsa che sono andata ad infilare i tralci tra i fili. La vigna è il regno di mio fratello e dei suoi uomini.”

“Quindi questa situazione funziona bene.”

“Noi abbiamo la buona abitudine di litigare spesso e comunque con il passare degli anni abbiamo imparato a compensarci. Gli assaggi dei vini li facciamo assieme ma fondamentalmente lui è il responsabile della parte tecnica e io mi occupo dell’estero, dell’Italia, delle fiere, dell’amministrazione etc.”

“Domanda semitecnica: su alcuni tue etichette c’è scritto che utilizzi lieviti autoctoni, però il rosato …”

“Sul rosato non li usiamo ed è l’unico vino in cui viene fatto. Non vorrei sbagliarmi ma credo che usiamo lieviti autoctoni da una ventina d’anni e le nostre fermentazioni in vasche di cemento partono tutte così, a parte appunto quello del rosato che però fermenta in acciaio.”

“Ma si chiama Bricco Lorella in tuo onore?”

“Certo e c’è anche una storia dietro. Anche se sembra strano fino ai primi anni ’80 io ero completamente astemia e mi dava proprio fastidio il vino, al punto che se in tavola mi andava una goccia di vino nel piatto io lo cambiavo. L’unico vino che bevevo era la Freisa, ma “una goccia a Natale e una goccia a Pasqua”. Da astemia mi iscrissi al corso AIS e non fu proprio una passeggiata, ma piano piano  ce l’ho fatta e mi sono avvicinata al vino, così quando nel 1984 la mamma decise di vinificare il nebbiolo in rosato me lo dedicò, diciamo come augurio. Se posso… mi ricordo che all’epoca, non esistendo un rosato a base nebbiolo, tutti i produttori pensavano che mia madre fosse pazza, anche perché in quegli anni una donna produttrice era vista come una che avrebbe fatto meglio a rimanere a casa, come una che scimmiottava gli uomini. Ora tutti fanno un rosato.”

“Questo rosato per me è un vino a due facce: al naso ha profumi da vini semplici, che fanno pensare ad un vino un po’ ruffiano, mentre in bocca ha struttura da vino importante.”

“Non amo i rosati ruffiani, ce ne sono anche troppi. Per questo lo facciamo che abbia una sua personalità. Poi se ha il mio nome pensi che possa essere un vino ruffiano?”

“Giusto! Nomen omen, anzi “donnen nomen”.”

“(Ride) è un vino con la sua personalità, con zuccheri praticamente a zero ed è comunque un nebbiolo, diciamo un rosso vinificato senza buccia.”

“Il tuo Coste della Sesia devo capirlo perché, detto  papale papale, è “un po’ troppo” per un Coste della Sesia. In bocca è “cicciuto”, corposo e pieno  da far terrore per essere un vino d’ingresso.”

“Quel vino è un Gattinara declassato, con l’unica differenza che non invecchia il legno come l’altro.  Le vigne da cui lo produciamo sono le stesse, ha la stessa fermentazione in cemento ma poi non segue la strada del Gattinara anche se qualche hanno gli facciamo fare un passaggio di massimo un anno in botte grande. Inoltre un Costa della Sesia può essere fatto anche con altre uve, tipo croatina, bonarda, vespolina, ma il nostro è 100% nebbiolo.”

“Anche perché non avete altre uve.”

“Qualche pianta di bonarda ce l’abbiamo ma non arriva mai a vendemmia perché piace molto ai caprioli…”

“E quindi, purtroppo, il problema non si pone. Veniamo ai tre Gattinara Riserva e devo ribadire quello che in ogni degustazione, bendata o meno, per me viene alla luce e cioè che L’Osso di San Grato e la Riserva (ex Gattinara “base” n.d.r.) sono fatti in un modo e il San Francesco in un altro. Sempre da un punto di vista puramente personale mi danno sensazioni più profonde i primi due,  mentre il San Francesco  mi sembra un vino più “international”.”

“Il San Francesco non è assolutamente “intenational”, ma partiamo dall’Osso di San Grato che, con 5 ettari e mezzo è la nostra vigna più grande. Qui ricaviamo 3500/4000 bottiglie di quel vino. Questo vuol dire che nella Riserva ci vanno a finire molte uve di quella stessa vigna, che è un sud pieno  e il suolo è praticamente un blocco di roccia con un strato fertile che difficilmente arriva ai 30 centimetri ma normalmente siamo sotto ai 20 centimetri. Il San Francesco invece è esposto a ovest e ha un suolo più profondo, con una percentuale maggiore di sabbia. La percentuale di uve che dal San Francesco vanno a finire nella riserva è inferiore  rispetto a quelle dell’Osso San Grato. il San Francesco viene vinificato come l’Osso ma fa per circa 18 mesi affinamento in tonneau e questo forse gli conferisce quella nota di “modernità”,  ma non mi sembra che in Borgogna siano tanto moderni eppure usano barrique.

Comunque anche quando in passato entrambi i vini andavano in legno grande erano completamente diversi. Hanno due caratteri molto distinti e il San Francesco è più femminile. Certe volte mi piace più dell’Osso di San Grato ma di solito quando cominciano ad avere diversi anni  preferisco quasi sempre  l’Osso.”

“L’Osso di san Grato ha un profumo che mi affascina e che per me è un pregio ma per molti non lo è:  lo  potrei definire come “acciuga”, Ccioè un sapore marino, salino.”

“Acciuga? Forse ti riferisci al salmastro che in molti vini di questa zona è abbastanza normale.”

“Inoltre non si sentono assolutamente i 14.5°.”

“Questo perché il vino ha un buon bilanciamento, anno dopo anno.”

“Arriviamo alla domanda finale, detta del Conte Ugolino. Sei  rinchiusa in una torre con i tuoi vini: puoi uscire e salvarti però portandone solo uno con te, chi salvi?”

“Qui sono incerta: Sia all’Osso di San Grato che al San Francesco io sono molto legata però in questo caso devo fare un discorso economico. Un vino, aldilà di tutto quello che uno può dire, nasce  perché ti piace farlo, perché ti dà soddisfazione e perché ti fa campare. Oggi sembrano tutti poeti…

“E’ la mission aziendale…”

“Certo, poi se il bancomat ti fa una pernacchia la mission va a farsi benedire. Quindi un’azienda sta in piedi grazie al fatturato e da questo punto di vista l’Osso San Grato, vigneto comprato da mio nonno con tutti che facevano la corsa a venderglielo perché dicevano che “E’ arrivato un pazzo da Roma che vuol comprare l’Osso” è quello che non potrei lasciare indietro. Questo anche perché è stata la vigna più costosa da piantare e ripiantare negli anni ed è stato il vino che ci ha dato le maggiori soddisfazioni, sia nelle verticali che nelle guide , last but not least, è stato il miglior rosso d’Italia per il Gambero Rosso. Quindi ribadisco che per affezione, riconoscenza e anche perché è quello che invecchia sempre molto bene mi porterei dietro l’Osso di san Grato.”

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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