Il vino 100% palestinese ma “prodotto in Israele”3 min read

Il vino è forse il prodotto che ha più accompagnato la storia umana, affiancandola in ogni momento, bello o brutto che fosse.

 

Un momento sicuramente importante e per i cristiani anche bellissimo è quello della nascita di Gesù Cristo e così parlando di Betlemme a noi italiani ( e non solo) vengono in mente in ordine sparso la capannuccia del Presepe, il Natale, il Bambine Gesù tra l’asino e il bue, e immediatamente ci tornano a galla ricordi di momenti gioiosi, allegri, piacevoli.

 

Per questo quando mi è stato proposto di assaggiare un vino fatto a Betlemme (in particola a Beit Jala a nemmeno cinque chilometri da Betlemme) sono stato non solo felice di assaggiarlo ma felice di poter avvicinare alle labbra un prodotto che non poteva, secondo me, non parlare un linguaggio di gioia.

 

E qui mi sbagliavo: mi sbagliavo perché non conoscevo la storia della cantina Cremisan (di proprietà dei frati Salesiani) che da circa 120 anni produce vino e che oggi è la rappresentazione enologica  di un momento  tra i più tristi della storia dell’umanità.

 

Ma andiamo con calma. La cantina Cremisan, di proprietà dei Salesiani,  ha vigneti sia in terrazzamenti sia su colline attorno a Betlemme ma tutti comunque in Palestina, impiega manodopera palestinese ed è una delle poche aziende attive e di successo in questa terra martoriata. Tra l’altro nella sua cantina si produce vino con tecnologia italiana che invecchia in botti italiane.

 

Questa cantina deve però fare i conti con l’attuale momento storico, che non solo ha fatto diminuire enormemente il numero di bottiglie prodotte, non solo rischia di renderla inattiva o quasi, ma la costringe a dichiarare il falso in ogni bottiglia.

 

Tutto questosia per colpa del famigerato muro costruito dagli israeliani che divide la Palestina da Israele sia per la semplice legge del più forte, cioè Israele,  che ha imposto alla cantina, se vuole sopravvivere, di “spacciarsi” per israeliana.

 

Infatti  la costruzione del muro avrebbe dovuto, in un primo momento, dividere i vigneti dalla cantina (con conseguente immaginabili), invece il muro ha “solo chiuso”  Cremisan in Palestina, obbligandola però, se vuole vendere il suo prodotto, a farlo passare per israeliano.

 

Infatti nella retroetichetta è chiaramente scritto “Produkt aus Israel” che vuol dire appunto prodotto da Israele.

 

Purtroppo l’uomo riesce anche ad avvelenare, con le sue falsità, quanto di buono può dare la terra. Immaginatevi infatti come possano sentirsi gli operai palestinesi che producono con le loro mani un vino su terra palestinese che esce da una cantina in Palestina, ma ha su scritto “Prodotto da Israele”.

 

Voi mi direte che nella tremenda situazione storica che vive oggi la Palestina questa del vino “falsificato” dagli israeliani e forse uno dei minori problemi, ma io credo che la pace e la convivenza civile passino anche e soprattutto attraverso dei piccoli gesti, come il permettere a chi produce qualcosa di poterlo dichiarare al mondo.

 

Anche il vino, all’assaggio, sembra voler evidenziare questa sua strana e difficile “connotazione geografica”: è infatti certamente corretto, alla fine piuttosto buono ma non pare certamente un vino da zona così calda come la Palestina. Me lo sarei aspettato più corposo, deciso, magari anche più maturo al naso. Invece prevale una certa internazionalizzazione che lo rende certamente gradevole ma poco connotato territorialmente.

 

Lo definirei un vino circondato da un muro, che non gli consente di esprimersi come dovrebbe e potrebbe.

 

 

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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