Il Macchia dei Goti 1994: recensione della bottiglia, non del vino2 min read

Ci sono bottiglie che conservi senza neanche più sapere perché. Come questa della vendemmia 1994, la prima uscita del Macchia dei Goti di Antonio Caggiano, il produttore che ha fatto scoprire Taurasi agli amanti del Taurasi grazie alla costruzione di una cantina in pietra visitabile dal pubblico.
C’è poi il momento, in una bevuta collettiva, in cui devi chiudere, possibilmente con il botto. ed ecco che allora, dopo 27 anni, perché di questo si tratta, decidiamo di aprirla.


Una bottiglia storica, che magari oggi a tanti giovani non dirà niente, ma i professionisti del vino sanno che questa è la prima bottiglia di Taurasi fatta dal professore Luigi Moio tornato fresco di studi da Bordeaux per affermarsi nella propria terra come studioso, come enologo e infine come produttore. Una carriera completa in cui la sua pignoleria metodica, la sua totale incapacità di essere superficiale gli ha portato qualche nemico gratis in più ma sicuramente a risultati concreti e palpabili di grandissimo spessore.
Probabilmente è l’ultima 1994 che era ancora tappata. In una precedente degustazione Al Campanaro di Alessandro Barletta a Taurasi avevo portato un po’ tutte le bottiglie degli anni ’90 che non ero stato capace di aprire, compresa questa. Risultato, in una cassetta dimenticata restano due 1997 e un Salae Domini 1994. Poi non ci saranno altri scritti a testimonianza di queste bottiglie.
Perché ne scrivo? Perché è anche stato il primo Taurasi passato in barrique, all’epoca una rivoluzione per questo areale abituato ai tonneaux, spesso neanche puliti molto bene fra una vendemmia e l’altra.

La visita a Caggiano, all’epoca in Campania a scrivere di vino c’era solo il compianto Mimì Monzon, mi fece conoscere Moio prima di incontrarlo. Antonio mi parlò, girando nella vecchia vigna Salae Domini a un centinaio di metri dalla cantina ancora in costruzione, che l’attenzione di Moio cominciava dalla campagna, dalla pianta, cosa molto rara per un enologo a quei tempi. In Francia aveva appreso le tecniche di lavorazione, l’importanza della potatura verde e tutto quanto serve a far maturare perfettamente le uve.
Spesso gli enologi sono visti come stregoni. Forse in passato, quando dovevano curare le grandi masse di uve non selezionate in arrivo nelle cantine sociali e dai grandi vinificatori poteva essere giusto generalizzare. Ma gli anni ’90 hanno portato la stretta relazione fra il grappolo e il vino come mai era accaduto sino a quel momento in Italia.
E l’ossessione di Moio per l’uva, oggi assolutamente inalterata, aveva tanto più ragione di essere con l’Aglianico, vino tardivo, molto tannico, i cui chicchi devono arrivare alla fermentazione assoluta liberi da ogni impurità.
Questo è stato il salto di qualità che ha trasformato il valore di questo vino da potenza in atto per dirla con Aristotele, ossia, liberata dalle vecchie pratiche di vinificazione, l’Aglianico arriva all’appuntamento in grado di essere finalmente leggibile e competitivo con le altre varietà.

Luciano Pignataro

Luciano Pignataro è caporedattore al Mattino di Napoli, il suo giornale online è Luciano Pignataro Wineblog.


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