I “volemose bene” del Piano Salva Trentino6 min read

Torna la nostra Madame X con un articolo tutto pepe sul recente Piano Vino del Trentino. Tenetevi forte!

 

 

Il 5 agosto 2011 la Provincia Autonoma di Trento ha approvato il piano “salva vino trentino” scritto ed ideato dagli ormai famosi “quattro saggi”, cioè esperti  del mondo del vino incaricati  proprio di trovare una via d’uscita per il settore ormai in coma etilico, causato da un eccessivo consumo di Pinot Grigio.

Giusto per inquadrare il moribondo, credo potrebbero essere utili alcuni dati riferiti al 2010. Il Trentino ha una superficie vitata di 10.176 ettari ( 1,48% Italia) che produce circa 875.000 h.li ( 2,05% Italia), suddivisi in 68, 37% vino bianco e 31,63% rosso.
La superficie media delle aziende è di 1,20 ha e l’età media dei conduttori è 61 anni. I vitigni dominanti sono il Pinot Grigio – 26,57% dell’intera produzione – e lo Chardonnay con il 28,89%. Nettamente inferiori le percentuali di produzione dei  vitigni più riconducibili al Trentino, almeno nell’immaginario collettivo,  come il Mueller Thurgau (8,86%), Teroldego (8%), Marzemino (3,30%) e Nosiola (0,66%).

Le cantine sociali detengono più del 90% della produzione e nello specifico Cantine Mezzacorona incantina 300.000 q.li di uva, Lavis 170.000 e le 11 cooperative afferenti in Cavit circa 660.000 q.li. 

Il primo dubbio sorto leggendo le dieci pagine-dieci del piano vino è proprio legato alla lunghezza del testo. Considerando i mesi necessari alla redazione del manoscritto, tutti ci saremmo aspettati un piano  economico vero e proprio ed invece l’unico conto uscito è stato la fattura dei quattro dell’Ave Maria, che pare sia di  10.000 € per le suddette 10 pagine.

Il manoscritto racchiude una serie di considerazioni sulla situazione attuale del comparto  enologico Trentino e prosegue poi con una serie di buoni propositi, quasi veri e propri fioretti.

Il nodo è la scarsa “trentinità” nella produzione locale e la conseguente mancata percezione di qualità nel consumatore, che si approccia al vino trentino come al fratello sfortunato dell’Alto Adige. Di questo sono incolpate le cooperative, ree di aver seguito la moda del Pinot Grigio senza riuscire a far crescere il territorio, dandogli solo una connotazione industriale. Sono accusate anche di aver condotto una politica di prezzo e penetrazione nel mercato sleale nei confronti dei vignaioli. 

Effettivamente  non tutti i dirigenti delle cooperative brillano per conoscenza approfondita del settore e il consiglio di amministrazione di Cavit ne è un esempio lampante, composto com’è da ingegneri, avvocati, uscieri, bancari, pensionati e solo da due agricoltori di professione.  Sorvoliamo sull’età media ed il sesso dei consiglieri. Credo sarebbe auspicabile un confronto con persone che distinguono una pianta di vite da un cactus e che soprattutto ci pensino due volte prima di consigliare i contadini a piantare varietà solo per seguire la moda del momento. Hanno presente che la vite, a differenza dei carciofi, necessità di almeno tre anni prima di entrare in produzione? Strano che i saggi non abbiano affrontato il nodo Pinot Grigio: cosa ne facciamo? Ricordo che rappresenta quasi il 27% dell’intera produzione trentina.

 

Qui purtroppo ci si scontra con quello che i cattivi definiscono il problema più grande del Trentino. Le persone normali collezionano francobolli, orologi e farfalle, ma tra le Alpi si preferiscono le poltrone.  I proventi della vendita di Pinot Grigio hanno permesso per tanti anni di remunerare lautamente i contadini e i soliti maligni suddetti fanno l’eguaglianza contadini contenti=voti assicurati.

 

Poi il giocattolo si è rotto – gli americani hanno capito che possono rifornirsi dai veneti e friulani a minor costo – e allora è stata chiamata a gran voce la Provincia. Imprenditorialità e libero mercato sono significati assolutamente sconosciuti, come si è verificato per Lavis e Cantina Sociale di Nomi: i dirigenti sbagliano, la Provincia ( e noi) paga e spesso e volentieri i “colpevoli” mantengono i ruoli all’interno della cantina. Ovviamente i Vignaioli si indignano perché si sentono soli e sfavoriti. Da un lato sono comprensibili, dall’altro viene da chiedersi perché non vanno avanti per la loro strada, autopromuovendosi e piantandola di dare solo la colpa alla cooperazione se le vendite sono difficoltose.

 

Sono momenti difficili per tutti ma si stringe cinghia e va avanti chi è veramente capace. Si chiama selezione naturale, concetto stroncato dall’assistenzialismo provinciale.

 

Nonostante questo quadro non proprio esaltante, i Fantastici 4 scrivono tra gli obiettivi “eliminare la contrapposizione tra i viticoltori delle cooperative e quelli indipendenti, instaurando un clima di fiducia reciproca”. Ora, va bene credere nei miracoli, ma qui si sta parlando di fantascienza. Da un lato abbiamo i collezionisti di poltrone, dall’altro un  gruppo di persone, qualcuno con la puzzetta sotto il naso, che si fanno venire l’orticaria appena sentono parlare di vino della cooperazione.
Probabilmente i due poli dovrebbero andare ognuno per la propria strada, perché incollare due pezzi che insieme non vogliono stare non ha senso. Si parla di cambiare mentalità delle persone e non basta l’ennesimo – è il terzo – piano provinciale per modificare usi e costumi ben consolidati. Non per nulla esiste solo una Borgogna, non mille. Non tutti ce la fanno.

La sacra scrittura sottolinea l’importanza di promuovere i vitigni rappresentativi del territorio e suggerisce a Cavit di “liberare” le cantine socie che sono in zone di particolare pregio. Un dato che forse è sfuggito è che le cantine in questione conferiscono in Cavit rispettivamente: Cantina d’Isera 71 % della propria produzione, Cantina Sociale Mori Colli Zugna 82%, Cantina Toblino 80%, Cantina Rotaliana di Mezzolombardo 73%. Questi dati indicano una totale dipendenza commerciale da Cavit e si pensa di costruire reti di vendita per Nosiola, Marzemino, Teroldego e Mueller Thurgau nel giro di un mese? Chi sarà a pagare la promozione per vini come la Nosiola che già a Verona nessuno conosce? Facile, la Provincia.

 

Nuovo colpo di genio assistenzial-dogmatico è la creazione di percorsi formativi e visite studio ad hoc per i dirigenti delle cooperative ed i viticoltori privati. Ora, è da un po’ che ritengo di avere sbagliato tutto nelle vita, ma oggi ne ho la conferma. Penso infatti ai soldi – miei – spesi per frequentare master e corsi di aggiornamento, i mesi trascorsi all’estero per qualificarmi professionalmente ed in alcuni casi imparare più lingue. Non sarebbe più semplice favorire il turn over nelle aziende, sostituendo gli zombie con giovani qualificati?

Mi rendo conto che la Fondazione Mach debba trovare un modo di riempire le aule costruite nella speranza di ottenere l’autorizzazione ministeriale per la costituzione della facoltà di agraria – ottenuta poi dall’Università di Bolzano- ma stiamo rasentando il ridicolo. Poi chi pagherebbe le visite culturali all’estero?

Si fa un gran parlare di costituire comitati interprofessionali (???), una nuova società di marketing e comunicazione, assumere due super consulenti per l’enologia e la viticoltura. Mi domando: è necessario creare altri baracconi? Non sono sufficienti quelli già esistenti? Mi pare incredibile che la Provincia Autonoma di Trento possa avere sottoscritto un documento che in sintesi afferma la totale inefficienza del sistema.

Per finire, sbandierare ai quattro venti la pubblicazione del piano vino è stato un atto suicida, perché il Trentino ha appena dichiarato, in soldoni, ai propri consumatori: “Abbiamo un problema enorme, fino adesso vi abbiamo propinato vini industriali ma tranquilli, miglioreremo, forse. Ovviamente se tutti faranno i bravi e smetteranno di farsi le scarpe a vicenda”. Come buttare definitivamente i consumatori tra le braccia dell’Alto Adige.

Non serve frequentare master, basta buon senso.

 

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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