Douro: vedere i vini rossi sotto una luce diversa7 min read

In una giornata luminosa, in un salone del Museo del Porto di Regua con un pavimento di legno scricchiolante a ogni passo, mi attendevano circa 180 campioni (en primeur, in stile Bordeaux) delle ca. 25 aziende che avevano aderito a questa prima edizione di Douro Primeira Prova, suddivisi tra bianchi, rossi, pochi rosati e spumanti confezionati più che altro per cavalcare i trend modaioli internazionali, e ovviamente Porto Vintage. Li ho spalmati in 4 sessioni di assaggio di tre ore ciascuna, chiaramente suddivise in due giorni. Il primo sforzo e l’attenzione più fresca l’ho dedicata ai rossi, ed è stata un’esperienza quanto mai educativa.

Nei miei trascorsi enoici, sempre più mi sono convinto di come la varietà degli assaggi, adeguatamente meditata e approfondita, apra la mente. Ognuno di noi ha un vissuto di degustazioni interiorizzato e sedimentato, che costruisce un’immagine di ciò che crediamo sia il nostro vino ideale. E certo lo è, nella misura in cui detto profilo non viene successivamente integrato da ulteriori “illuminazioni” gustative. Ed è precisamente quanto mi è successo a Regua, proprio nel campo in cui nel Bel Paese riteniamo di aver ben poco da imparare, ovvero i vini rossi.

Siamo tendenzialmente abituati a vitigni dalla struttura tannica assertiva, come il Sangiovese, Il Nebbiolo o anche l’Aglianico, e, attendendo fiduciosi un’evoluzione che la saprà smussare, a volte perdoniamo con indulgenza una certa rusticità dell’astringenza nella gioventù del vino. Ne concepiamo una fruizione gastronomica con pietanze che possano esaltarne il nerbo acido, nel senso di renderlo funzionale alla pulizia del palato. In questo contesto, e in certa misura anche per le caratteristiche della cucina cui siamo abituati, spesso marcata dall’uso dell’olio EVO, non ci “spaventiamo” troppo di fronte ad assaggi più o meno squilibrati sulle componenti dure, ovvero appunto tannicità, acidità e anche sapidità.

Anzi, condanniamo con una sorta di aristocratico aplomb tutti quei profili gustativi in cui invadenza del frutto, morbidezza, volume del vino al palato alludono a una mollezza che definiamo ruffiana: essa è indissolubilmente legata a uno stile internazionale che riduce per diminutio il vino a prodotto e bevanda goduta solo come mera eccitazione sensoriale, e non, come orgogliosamente proclamiamo e vorremmo, anche come esperienza culturale. Ne consegue che spesso la grande bottiglia è quella che coniuga in armonia suadenza e sapore, maturità e nerbo, polpa e profondità gustativa.

Ebbene, nei miei assaggi dourensi questo conseguimento veniva pienamente raggiunto con sorprendente frequenza. Si poteva supporre che l’enologia portoghese fosse ancora in fase di assorbimento di tutte quelle innovazioni di cantina che hanno sì migliorato il livello generale dei prodotti presenti sul mercato, ma anche condotto a una deleteria standardizzazione del gusto, erroneamente percepita come qualità “oggettiva” da tutti quei mercati che si sono accostati al vino di qualità nel corso degli anni, dagli Stati Uniti prima, alla Russia poi, all’Estremo Oriente adesso.

Niente di tutto ciò! Mi sono goduto con crescente piacere e uno stupore che andava scemando calice dopo calice campioni eleganti, variegati nell’espressione aromatica, levigati nel tannino, intonsi in un frutto che si distendeva con naturalezza al palato senza alcuna banalità, soprattutto impeccabilmente equilibrati.

E’ stato così automatico, oserei dire doveroso, chiedersi: non è che qualche volta sbagliamo tutto? Non è che i produttori del Bel Paese, inseguendo il miraggio del “grande” vino (che poi a volte vuol dire “grosso”) esagerano nell’estrazione, e così i tannini dei rossi più ambiziosi sono eccessivamente austeri? Non è che si pensa che un lungo affinamento in legno sia la panacea di questo ed altri mali, e così a sua volta si “secca” e si indurisce la percezione tattile dell’astringenza al sorso? Poiché i miei assaggi portoghesi non erano certo timidi nella ricerca della struttura, ma nel quadro di una piacevolezza già nell’immediato che da noi spesso non è contemplata. Magari potrà essere utile giudicare le mie prossime esperienze di degustazione anche da questa nuova prospettiva, e ne potranno scaturire spunti interessanti.

In sintesi, nel Douro la tecnica era stata impiegata per esaltare una caratterizzazione da ascrivere ai territori di produzione e alla varietà degli uvaggi, per come segue.

Sul grande fiume altitudine ed esposizione (e quindi anche ventilazione) possono variare enormemente, con immediate conseguenze sui microclimi: può capitare che spostandosi di pochi metri in un vigneto si percepiscano variazioni di temperatura sensibili, anche di 7-8 gradi. Per i suoli, i terrazzamenti storici usati per la produzione del Porto ed in generale la non piccola zona patrimonio Unesco sono composti di ardesia più o meno minutamente frantumata, che consente alle radici di penetrare in profondità alla ricerca di quell’acqua comunque accumulata durante l’inverno, che consente di sopravvivere alla mortifera calura estiva (Nove mesi di inverno e tre mesi di inferno, recita un adagio locale). Ma i vini rossi da tavola sono prodotti anche su disfacimenti di graniti, e la sapidità non fa mai loro difetto.

Sono altresì numerosissimi i vitigni presenti nel Douro. Il disciplinare tra bianchi e rossi ne prevede qualche decina: fonti diverse forniscono numeri diversi, e quindi non azzardo una cifra precisa.

In vinhas velhas a volte piantate subito dopo l’invasione fillosserica c’è davvero di tutto e di più, e l’uvaggio di più di una referenza in assaggio veniva pilatescamente indicato come “field blend”. Altrimenti negli assaggi si andava da esperimenti in purezza lodevolmente caratterizzati, ad assemblaggi ove prevalevano, in ordine sparso.

Tinta barroca.

Touriga Nacional (il vitigno portoghese adesso più blasonato, di fine trama tannica e accattivanti profumi floreali, ma non il più diffuso).

Tinta Roriz (il nome locale dello spagnolo Tempranillo, in calo di popolarità in quanto in debito di acidità a meno che non sia piantato alle quote più elevate).

Touriga Franca (o Francesa: copre oltre un quinto dell’estensione vitata, delicatamente aromatica e produttiva ma a rischio diluizione se le rese sono eccessive o le vigne non ben esposte. Alcuni enologi definiscono Touriga Nacional e Touriga Franca “il Cabernet e il Merlot del Douro”).

Tinta Barroca (poco più del 10% della superficie dei vigneti; produttiva, raggiunge comunque elevate gradazioni alcoliche, e tende ad appassire in pianta)

Tinto Cão (che sta per “Cane Rosso”: attualmente oggetto di reimpianti nonostante le basse rese per la densità dei vini che origina e la resistenza alle malattie).

Tinto cao Douro

Questi cinque vitigni negli anni ’80 furono indicati come i migliori e più convenienti da impiegare dal PDRITM, imperdonabile acronimo che in portoghese più o meno sta per “Progetto Integrato di Evoluzione Rurale nella regione del Trás-os-Montes”.

In pratica, il Centro di Studi Vitivinicoli del Douro realizzò impianti sperimentali di numerose varietà presenti nel Douro, con relative microvinificazioni in purezza, appunto per individuare le più “meritevoli”, successivamente la Banca Mondiale finanziò i reimpianti delle aziende. E’ stato proprio con questo progetto che si è iniziato a comprendere compiutamente il potenziale della Touriga Nacional. Peraltro, recentemente, il timore di disperdere un inestimabile patrimonio di diversità ampelografica ha condotto ad un revival della popolarità di altre cultivar: vedi il Sousão, affascinante per il colore profondissimo e la ruspante acidità.

Foto Nuno Lopez da Pixabay.

Mi astengo dall’indicare delle referenze particolarmente distintesi durante la degustazione, in quanto tratterebbesi a prescindere di etichette di difficile reperibilità, prodotte da aziende i cui nomi in Italia sono sconosciuti ai più (anche per il sottoscritto: adesso, in attesa di ulteriori esperienze, poco significano a parte l’associazione a positive note di degustazione).

Vorrei piuttosto nuovamente sottolineare con convinzione come il livello generale degli assaggi sia stato di assoluto rilievo, qualunque fosse “l’ambizione” delle diverse etichette: ovvero vi erano sia vini “base” di beva accattivante e immediatamente godibile, sia cuvée più selezionate, spesso dai vigneti storici, impressionanti per profondità, eleganza, persistenza.

Inoltre, a parte due campioni di Syrah in purezza e altri due di Petit Verdot anch’essi 100%, più o meno gradevoli ma un poco più banali nell’espressione (probabilmente poiché si staccavano dal resto e somigliavano a quanto a me già noto) spiccava l’assenza dei vitigni internazionali: che l’enologia portoghese già brilla per la valorizzazione della propria variegata eredità.

Il giorno della mia fulminazione per i rossi del Douro si è concluso con una visita e cena in azienda, ma questo e gli ulteriori assaggi saranno oggetto di un ulteriore, conclusivo articolo.

Riccardo Margheri
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