Appello per il vino italiano: Complesso di Golia?5 min read

Da alcuni giorni ho sott’occhio “l’appello del vino italiano” lanciato dallo stimato collega (si dice così sempre ma in questo caso è anche vero) Andrea Gabbrielli e firmato da un nutrito numero di produttori-enologi (pochi giornalisti invero). Lo leggo e lo rileggo e cerco di capire dove stia il problema. Scorro i nomi dei firmatari e continuo  domandarmelo. Mi imparo quasi a mente il testo e non riesco ancora a capire i termini del discorso. Prima di continuare è giusto che parli dell’Appello, in modo che tutti possano partire dallo stesso punto. Anzi, già che ci sono ve lo riporto per intero link.
La prima cosa che balza all’occhio è quella che potrei definire uno smisurato “Complesso di Golia”. In altre parole i giganti del vino italiano (tra i produttori firmatari si va da Antinori a Lamberto Vallarino Gancia, passando per Cecchi, Carpenè e Bisol, tra gli enologi abbiamo i fratelli Cotarella, Ferrini, Chioccioli e non scordiamoci dell’adesione di Federvini ed Unione Italiana vini) si sentono insidiati da “una corrente culturale che vuole imporre una visione che tende a limitare gli orizzonti della ricerca e dell’enologia”. Se volessi trovare i sostenitori, gli adepti o addirittura gli ispiratori di questa “corrente culturale” chi dovrei citare? Il gruppuscolo dei biodinamici, o forse Gravner, Feudo Montoni,Ampelio Bucci, Soldera (che arrivano anche a produrre 40.000 bottiglie di vino…..) o giornalisti come il sottoscritto che, come tutti sanno, possiede il pacchetto di maggioranza di RCS e Gruppo Espresso. Altro che complesso di Golia! Qui chi comanda il vino italiano si sta preoccupando di una porta sbattuta nel castello accanto. La cosa mi suona strana, talmente strana che credo si debba approfondire. Perchè proprio in questo momento l’enologia sente il bisogno di rivendicare una totale libertà di azione? In realtà questa libertà l’ha sempre avuta nei fatti: quello che mancava era il coraggio di parlare liberamente di certe pratiche (anche più che lecite) come per esempio l’uso della gomma arabica. Con l’avvento dei grandi enologi e con la nascita in Italia di una (pseudo?) cultura del vino si è superato anche questo tabù e soprattutto lo sguardo si è alzato verso l’estero, verso enologie molto più sviluppate ma anche molto più liberistiche della nostra. Nel testo ad un certo punto si legge “L’enologia non può limitarsi ma deve essere in grado di cogliere tutte le opportunità,.”
Sfogliando l’elenco dei prodotti e delle pratiche ammesse dell’ OIV link mi pare che l’enologia italiana abbia tutta la libertà di cui, secondo l’appello, abbisogna. Se ne vuole ancora? Io credo invece che , si cerchi altro, cioè di convincere i consumatori che la ricerca scientifica è sempre e comunque un bene, una “Gaia Scienza” che non può che portare miglioramenti. Forse sarà eccessivo ma mi viene in mente Orwell ed il suo 1984, dove il Grande Fratello non si limita a dominare ma a convincere i dominati che è giusto esserlo.
Ma la madre di tutte le domande è cosa si intende per scienza enologica?  Se è quella che nell’appello si definisce come: “’ammodernamento e  svecchiamento delle cantine dal punto di vista tecnologico e strutturale” io non ho dubbi che debba essere portata avanti. Del resto la pulizia in cantina o l’uso del freddo è sicuramente senza controindicazioni, almeno dal punto di vista della salute. Quando però arriviamo a parlare di prodotti o “protocolli enologici moderni applicati sia dalle grandi che dalle piccole aziende” allora vorrei si riflettesse un attimo. Uno degli enologi firmatari dell’appello mi diceva (in camera caritatis) che spesso si domandava a cosa servissero tutti i nuovi prodotti che annualmente entrano sul mercato e soprattutto come si facesse a stabilire sia la loro efficacia che la loro innocuità. “Noi siamo pressati dal produttore, che vuole sempre e comunque un vino buono da vendere e dobbiamo fare di tutto per darglielo. Non abbiamo certo il tempo di approfondire la natura e le caratteristiche di ogni prodotto” questo mi confidava l’enologo X, salvo poi firmare l’appello.
Ma questi benedetti prodotti o protocolli a cosa devono servire? Secondo l’appello ad  “abbassare i costi e ad aumentare i profitti delle aziende, rendendole sempre più competitive”
Ma se lo sanno anche i sassi che il costo maggiore per un produttore di vino italiano è quello della manodopera cosa si sta dicendo? Se si vuole risparmiare su un vaso vinario, su un lievito o su una barriques il solo modo è quello di unirsi ad altri e comprarne di più, abbassando così il prezzo del singolo bene. L’aspirina costa pochi centesimi perchè se ne produce e se ne vende più del pane, non certo perchè la scienza farmacologica è andata avanti. Forse quella diminuzione di costi si riferisce alle aziende di prodotti enologici?
Oscurantismo? Per me è solo cercare i vedere come stanno le cose. Da una parte abbiamo una legislazione europea anche troppo libertaria, dall’altra un mercato di massa (forse anche di nicchia) che vuole vino senza domandarsi tanto come è fatto. Allora dove sta il problema?
Se è per discutere discutiamo, ma almeno non ci prendiamo in giro. La mia paura è però una sola, che lo scopo finale sia il voler far passare per grandi vini, quelli fatti con tutti i crismi della tecnologia, emarginando quelli che nascono senza bisogno di tanti fronzoli enologici. Non sono un sostenitore dei vari vini veri, biodinamici e simili, credo che spesso siano eccessivi ma li rispetto. Rispetto meno chi mi vende un vino chiaramente taroccato per grande espressione del territorio. Sangiovese che sanno di mora, vermentini con profumi del frutto della passione, Aglianici con sentori di rosa e via cantando……..

 

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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