Alto Adige: meglio i Lagrein dei Pinot Nero4 min read

Concludiamo il nostro trittico altoatesino, aperto con gli assaggi dei bianchi (vedi) e a seguire delle schiave (vedi)   con la pubblicazione delle degustazioni e dei commenti ai Pinot Nero ed ai Lagrein.

Dal nostro punto di vista questi  sono i due vitigni (escludendo d’ufficio nella tipologia rossi strutturati la schiava) a bacca rossa che possono esprimersi meglio in Alto Adige.

Hanno caratteristiche quasi opposte e richiedono metodi colturali molto diversi, però incarnano entrambi alcuni aspetti fondamentali dell’altoadige vinicolo.

Il Pinot Nero, specie in alcune enclave fortunate come Mazzon, esprime l’immediatezza del frutto e la finezza di un vitigno che fino ad ora ha dato solo in Alto Adige risultati in qualità ed in quantità. Ho parlato di Mazzon perché questo fazzoletto di terra fortunato  rischia di ritrovarsi in “zona troppo bassa” se l’andamento climatico continuerà di questo passo. Si trovano infatti vigneti di Pinot Nero piantati sempre più in alto e a questa specie di “gara in altezza” sembra aggiungersene una seconda , che potremmo definire “Gara di borgognità”.

In altre parole: i Pinot Nero altoatesini hanno raggiunto standard alti proponendosi come prodotti di grande riconoscibilità aromatica e di buona eleganza al palato. Una strada che non portava verso imitazioni borgognone, almeno fino a poco tempo fa. In questi assaggi abbiamo notato invece come l’immediatezza e la componente aromatica in generale non fosse molto evidente, privilegiando, forse, terziarizzazione future.

Speriamo che il tempo (non tanto tempo, due-tre anni al massimo) dia ragione a quei pinot nero che adesso ci sono sembrati piuttosto chiusi e scontrosi al palato, grazie anche ad un uso del legno non certo esemplare. Complessivamente l’assaggio dei Pinot Nero non è andato malissimo (media stelle 2.41) ma ci ha lasciato abbastanza incerti perché abituati a gamme aromatiche più nette, più giocate sul frutto, più immediate e piacevoli.

Non confondiamo immediatezza e piacevolezza con semplicità: quest’ultima denota carenza aromatica mentre i Pinot Nero altoatesini esprimono al meglio il grande e inconfondibile frutto del Pinot Nero, declinandolo con eleganza. Questo purtroppo mancava a diversi vini. Per carità! Vini buoni, nasi espressi , tannini eleganti e fini li abbiamo trovati ma ne aspettavamo molti di più.

Se il termine finezza ci porta al Pinot Nero il suo opposto potrebbe, grossolanamente parlando, avvicinarci al Lagrein. In effetti una sana rusticità contraddistingue questo vitigno che non ha bisogno di terreni collinari, tanto che alcuni vigneti famosi si trovano proprio dentro Bolzano.

Spesso usata in passato come uva da continua “compagnia…ad altre uve” (anche in zone insospettabili…) si è nel tempo affrancata dalla “servitù del taglio”  fino ad arrivare a ritagliarsi uno spazio preciso tra i rossi italiani importanti .

Tutto questo è avvenuto in alcune fasi: in un primo tempo si è cercato di domare la sua  tannicità con clamorose botte di legno poi si è capito che era meglio lavorare nel vigneto, senza però dover per forza puntare su rese estremamente basse che non facevano certo bene alla sua esuberante  tannicità. Adesso, dopo aver imparato a dosare il legno (ma non scordiamoci che forse il miglior Lagrein assaggiato è un vino senza legno) e  la sua naturale vigoria nel vigneto il Lagrein è un vino/vitigno di grande fascino.

La conferma l’abbiamo avuta dal nostro assaggio, dove  i lagrein hanno mostrato un bel carattere sia al naso che in bocca. In particolare ci sono piaciuti i nasi dei giovani lagrein, molto fruttati e equilibrati, mentre quelli di annate precedenti ogni tanto stentavano a trovare una precisa connotazione. Sul fronte del palato, fermo restando il tannino sempre “dolcemente rustico” ma ben caratterizzato e circondato da buona grassezza abbiamo trovato delle belle freschezze  e, per fortuna,  quasi nessun campione oberato da legno.

Del resto una media stelle di 2.75 parla da sola e siamo felici parli a favore di un vitigno autoctono che ha ormai tutte le carte in regola per primeggiare tra i rossi di questa meravigliosa terra.

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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