All’ANIMA del metodo Classico!4 min read

Sono pochi, non sono molto bravi a farsi pubblicità e già il fatto di essersi riuniti in associazione è fattore estremamente positivo. Vengono da tutta Italia, dalle zone enoiche e dai vitigni più disparati e si sono raccolti attorno alla sigla “Anima” (Associazione Nazionale Italiana Metodoclassico Autoctono). Sono i produttori di vini spumanti (non charmat) da uve autoctone. Di loro avevo già scritto circa 2 anni fa (vedi) ed oggi torno a parlarne per un assaggio che finalmente siamo riusciti ad organizzare e che ci ha visto di fronte a spumanti provenienti da uve come Cortese, Erbaluce di Caluso, Arneis, Trebbiano di Lugana, Verdicchio,  Montepulciano e  Nebbiolo. Del gruppo (non pervenuti purtroppo) fanno parte anche spumanti a base di Blanc de Morgex, Garganega, Asprinio d’Aversa e Nerello Mascalese. Questo per mettere tutte le carte in tavola e poi iniziare a discutere.

Già mi immagino una divisione in due correnti di pensiero: la prima esitante ed ironicamente pessimista (“Ma che cosa credono di fare con ste’ uve” potrebbe essere la parola d’ordine) la seconda estremamente positivista e quasi sdraiata sulla linea (la frase “le uve autoctone, che bello! Saranno sicuramente buoni e particolari” racchiude questa filosofia).

Tendenzialmente portato verso la seconda non posso però abdicare al ruolo che mi compete, quello di cercare un filo (anche qualitativo) conduttore tra questi vini. Per fare questo mi camuffo da partigiano della prima tesi e metto in tavola il carico da 11 "Come dicono in Champagne, un vino spumante non è un bianco con le bollicine, ma una cosa completamente diversa e per farlo occorrono non solo uve adatte ma grande esperienza".

Mettiamo pure che questo sia vero: va dato comunque atto  ai produttori di ANIMA di non essere degli sbarbatelli della spumantizzazione, ma di averla (quasi tutti almeno) nel proprio DNA aziendale e/o territoriale. Prendi il territorio del Verdicchio, che negli anni 40’ del secolo scorso produceva più bollicine che vini fermi o la zona di Lugana e di Gavi, dove le bollicine non sono nate certo ieri.

Ma proviamo a dare per scontato che trovarsi a produrre bollicine praticamente da soli in una certa zona non è certo il miglior viatico per imparare e crescere grazie al confronto. Puoi certo assaggiare tutti i Franciacorta i Trento DOC o gli Champagne che vuoi, ma alla fine devi sempre fare i conti con realtà ampelografiche, viticole, agronomiche e territoriali completamente diverse. Un po’ come mettersi a guidare un’auto con la guida a destra: sempre auto è, ma provate ad entrare senza esperienza in una trafficata rotonda londinese e poi mi saprete dire…

Insomma: prima di assaggiarli, se non sei proprio un pasradan dell’autoctono, è quasi normale una bella vena di scetticismo. Questa però scompare dopo i primi calici ed ha come motivo principale la qualità dei vini e come secondo motivo (proprio attaccato al primo ma rilevabile solo con un assaggio del genere) la coinvolgente diversità tra vino e vino, tra uva e uva. Qui non si tratta di sentire più o meno la buccia di mela ma la differenza tra l’agrume dell’erbaluce, i fiori dell’Arneis, la minerale austerità del Cortese, la tannicità repressa ma non doma del Nebbiolo, la freschezza del Trebbiano di Lugana, l’ anice e la salvia del Verdicchio e via cantando.

“Grande Diversità nella qualità” questo potrebbe essere il loro motto, perché la qualità c’è. Molti vini sono andati sopra alle 3 stelle e solo uno si è fermato a 2. Le belle caratteristiche di uno spumante metodo classico ( bollicina fine, cremosità al palato, fresco equilibrio) sono presenti in quasi tutti i vini.
A questo punto vi rimando alla degustazione chiudendo con una nota allarmata: per come è strutturata, un’associazione come ANIMA rischia di non potersi muovere. Occorrono forze fresche, nuovi produttori per dare linfa ad un’idea che altrimenti è messa a repentaglio dalla sua stessa minimale struttura. Capisco che i produttori di bollicine autoctone non si trovano da un giorno all’altro ma aprire l’associazione a chi ne usa almeno il 50% e magari per questo non produce un vino DOC, mi sembrerebbe un modo intelligente per fare di necessità virtù.

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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