Il cibo come seconda medicina? Col c……4 min read

Il nostro Granocchiaio si è ritrovato in ospedale (tranquilli, tutto a posto) ma ha dovuto comunque "convivere" con il cibo ospedaliero. Questo il suo punto di vista, vi garantiamo molto edulcorato rispetto all’originale.

Mangiare a ristorante significa mangiare fuori casa. Magari in un locale gradevole, con buona qualità e comunque diverso da quello che abitualmente consumiamo a casa. Non capisco e non condivido chi per apprezzare certi locali dice di “mangiare bene come se fosse a casa sua”. A queste condizioni preferisco mangiare a casa mia, se non altro per il risparmio.
 
Ci sono tuttavia casi in cui il mangiare fuori casa non è una scelta, ma una necessità. Il caso classico è la ristorazione negli ospedali. Qui ovviamente non è che si ordina “alla carta”, ma si segue dei menu adatti alle proprie condizioni di malato, specifici quindi per ogni degente, adeguati alle prescrizioni del medico. Anche se  certe volte e in certi casi, è possibile personalizzare le preferenze del degente. Ovviamente non si aspettano qui piatti speciali ed elaborati, ma piatti semplici, con ottime materie prime e ben eseguiti.

Semplicità non conduce automaticamente alla banalità, o peggio ancora alla sciattezza, ma anzi, al contrario, ad un cura ancor più attenta delle materie prime e delle preparazioni.
Durante la mia ultima permanenza in Ospedale avevo una dieta identificata come “DIABETICA 1600” dove 1600 presumo siano le calorie. Il resto è chiaro.
Sul primo aspetto, cioè sulla qualità delle materie prime, mi posso esprimere solo sulla frutta che mi è parsa di buona qualità. Purtroppo sistematicamente troppo acerba, Kiwi in particolare. Impossibile da sbucciare con il coltellino di plastica fornito.

Sulla qualità delle materie cucinate esprimere un giudizio risulta assai difficile. Questo perché le cotture, le preparazioni e la presentazione sono talmente sconvolgenti da rendere arduo questo giudizio.

Quali sono i problemi?
Le pietanza cotte arrivano si calde, ma non si sa quanto abbiano stazionato nelle ciotole di “caldo contenimento”. Ciotole spesso in ottima ceramica con tanto di campana o coperchio. La pasta e il riso arrivano in una condizione quasi collosa, mentre le carni ed il pesce giungono al paziente completamente disidratate. Probabilmente per il fatto di stazionare nei carrelli a temperatura per un periodo troppo elevato. Questo toglie alla pietanza anche la più esile umidità, masticabilità e sapore.
E si capisce allora come poi i “medaglioni” di carne macinata, cucinati già in assenza di grassi (non se ne trova traccia), risultino secchi e si lascino sbriciolare come fossero di sughero.
I filetti di platessa cotti “al forno” risultano poi nel piatto di portata completamente asciutti e stoppacciosi.

Che ci siano “problemi” nell’ultimo passo nella filiera di preparazione viene confermato anche nelle verdure che, cotte o crude che siano, arrivano sempre non opportunamente asciugate o “strizzate”. Evidentemente non è che ci possiamo permettere di asciugare noi l’insalata. Ho provato con le posate in plastica ed il piatto inclinato a “strizzare” un contorno di spinaci e ne ho ottenuto mezzo piatto di liquido.

Sapere che la preparazione della ristorazione è affidata ad una ditta che sforna decine di milioni di piatti all’anno rende la cosa ancora più inspiegabile. E si che parrebbe più un problema di organizzazione che di costi.
Possibile che nessuno abbia mai controllato “a valle” questa situazione? Possibile che a tutti vada bene così?
O magari molti si rassegnano con la battuta: ma cosa pretendi, in fondo sei all’ospedale!

Oltre alle comprensibili necessità e ragioni di avere un buon cibo, e non si comprende perché così non dovrebbe essere, avere un gradevole pasto, semplice ma ben eseguito, aiuta in maniera non indifferente il paziente che si trova a dover superare un momento delicato della propria vita.

Ricordo che quando ero malato da ragazzo aspettavo quasi con gioia il momento del mangiare. Quando arrivava la minestrina, o il riso in bianco, o la razza al vapore, o la fettina all’olio, o la carne macinata cotta con il limone, sentivo nei piatti tutto il calore della cura di mia mamma o di mia nonna. E questo li faceva diventare piatti speciali, sicuramente aiutavano fisico e morale.

Ora è evidente che non si può pretendere tanto “cuore” da un piatto servito all’Ospedale. Ma almeno delle buone attenzioni e procedure per un mangiare tecnicamente corretto, non sciatto, beh, questo credo proprio si possa richiedere e pretendere.

Roberto Tonini

Nato nella Maremma più profonda, diciamo pure in mezzo al padule ancora da bonificare, in una comunità ricca di personaggi, animali, erbe, fiori e frutti, vivendo come un piccolo animale, ho avuto però la fortuna di sviluppare più di altri olfatto e gusto. La curiosità che fortunatamente non mi ha mai abbandonato ha fatto il resto. Scoperti olio e vino in tenera età sono diventati i miei migliori compagni della vita. Anche il lavoro mi ha fatto incrociare quello che si può mangiare e bere. Scopro che mi piace raccontare le mie cose, così come a mio nonno. Carlo mi ha invitato a scrivere qualche ricordo che avesse a che fare con il mangiare ed il bere. Così sono entrato in questa fantastica brigata di persone che lo fanno con mestiere, infinita passione e ottimi risultati. 


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0 responses to “Il cibo come seconda medicina? Col c……4 min read

  1. Roberto dice cose sacrosante . Ho fatto per anni la volontaria ospedaliera , ho assistito malati nell’ora della cena ed ascoltato le loro rassegnate lamentele
    Già , perchè quando si è in ospedale non si ha la forza per protestare , non perchè non si abbia vigoria fisica per farlo, ma semplicemente perchè si vive in una condizione di sudditanza psicologica che toglie ogni velleità  di far presenti le proprie osservazioni, timorosi di urtare la suscettibilità  di medici ed infermieri . Il cibo, cosଠcome viene presentato , toglierebbe l’appetito a chiunque .
    Sono quei liquidi lasciati nei piatti, non sughi ma residui incolori di scolature non fatte , sono quei colori ora smorti , ora troppo scuri, che ti danno l’idea della poca cura che c’è stata al momento in cui si è proceduto alla preparazione della pietanza . C’è la sensazione netta che a nessuno importa se mangerai o meno , tanto sei solo il numero di un letto di ospedale e non il cliente dell’hotel che solo se soddisfatto ritornerà  a trovarti.
    Peccato, basterebbe poco per rendere gradevole una portata , basterebbe un po’ di attenzione , un po’ di cura , basterebbe pensare che i destinatari di quel piatto sono persone in momentanea difficoltà  , più fragili degli altri, più sensibili, più bisognosi di affetto e di comprensione.

  2. Mi spiace che tu sia stato in ospedale, ma PROPRIO durante la festa di winesurf mi spiace ancor di più, perchè eri una di quelle persone che volevo conoscere. Pazienza e cerca di star bene.
    Io ho lavorato in ospedale dal 75 ed allora le mense erano ben diverse. Si conosceva il cuoco, prima di tutto. Basti dire che i migliori gnocchi col ragù li ho mangiati al Bellaria quando c’era Fenara. Ma faceva di più. una volta alla settimana c’era la parmigiana di melanzane o le melanzane gratinate, il sabato le tagliatelle (fatte da loro) al ragù, che, alla faccia del colesterolo(non usava molto) era fatto anche con le cotiche di maiale. A Natale, per chi doveva lavorare, c’era il pranzo di Natale. Ovviamente nei reparti la roba che arrivava era stata cotta poco prima. Adesso non si può più. tutto è anonimo, anche il cuoco, Anche il cibo. Il cibo, per tutti, arriva dalla grande azienda che cucina , chissà  dove, costi ridotti all’osso. I controlli igienici devono prevalere su tutto, se potessero, metterebbero la varecchina nel piatto. Si mangia per nutrirsi non per il piacere di farlo. Ciao

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