InvecchiatIGP: Vin de France Blanc “Cuvée Marguerite” 2016, Domaine Matassa4 min read

In questa rubrica non parleremo dei problemi geriatrici di qualcuno di noi (anche se sarebbe utile). Il nostro intento è quello di andare a scovare e raccontare i vini italiani “non giovanissimi”. Abbiamo pensato a questa dizione perché non parleremo quasi mai di quelli che vengono definiti “vini da grande invecchiamento” ma cercheremo sorprese, chicche, specie tra vini che nessuno si aspetterebbe.

C’è un piccolo villaggio nei Pirenei Orientali, Calce, che sembra dimenticato da Dio ma non dai vignaioli. Lì, nel cuore del Roussillon più ruvido e autentico, nel 2002 è arrivato Tom Lubbe, neozelandese con radici sudafricane e un passato nelle cantine naturali più illuminate d’Europa, primo fra tutti il Domaine Gauby.

Domaine Matassa nasce così: da un’idea quasi punk di vino, ma profondamente legata alla terra. Lubbe inizia recuperando vecchie vigne a piede franco, spesso abbandonate, piantate a Carignan, Grenache e a vitigni bianchi misconosciuti come il Macabeu e il Muscat d’Alexandrie.

Tom Lubbe

Il primo vino lo vinifica negli spazi del suocero, Gérard Gauby, poi mette su cantina propria e una squadra minuta ma decisa. I vigneti — sparsi su suoli di scisti, marne, argille — si trovano tra i 150 e i 600 metri di altitudine. Le viti sono vecchie, coltivate ad alberello, senza irrigazione, e allevate secondo principi biodinamici, ma senza fanatismi da manuale: si usano sovesci, si lavora con i cicli lunari, si lascia fare alla natura. In cantina, la filosofia è chiara: nessun intervento superfluo. Le fermentazioni sono spontanee, niente lieviti selezionati, niente chiarifiche o filtrazioni. E lo zolfo? Solo se strettamente necessario, e comunque in dosi omeopatiche. Il vino nasce così, vivo, elettrico, un po’ anarchico ma mai fuori controllo. Tom odia l’alcol alto e la pesantezza: vendemmia presto, ricerca acidità, e produce rossi di 11 gradi che sembrano bianchi per quanto sono tesi, salini, succosi. Le sue etichette — Coume de l’Olla, Olla Rouge, Marguerite, Brutal — sono diventate oggetto di culto, piccoli manifesti liquidi di un approccio libero ma profondamente territoriale, sinonimo di artigianalità vera ma senza sovrastrutture.

La Cuvée Marguerite 2016, oggetto del mio InvecchiatIGP, rubrica che da anni racconta grandi vini del mondo con qualche anno sulle spalle, è una bottiglia che ho acquistato on line nel pieno del periodo Covid e che, quasi per caso, è rimasta a riposare in cantina per almeno quattro anni. Così, complice il caldo e il desiderio di bere una Francia diversa, ho deciso di stappare questo bianco dorato proveniente dal Roussillon, frutto di vecchie vigne di Muscat d’Alexandrie, Macabeu e Muscat à Petits Grains coltivate su terreni di ardesia, che nel tempo ha dimostrato quanto un vino naturale possa sorprendere per complessità, freschezza ed energia nonostante la sua apparente fragilità.

Versando la Cuvée Marguerite nel bicchiere mi accorgo subito che ho davanti un vino vivo, dalla veste leggermente velata e dorata, che al naso regala sentori floreali intensi, frutta tropicale, scorza d’agrumi, spezie fini e note erbacee balsamiche. In bocca sorprende per la leggerezza alcolica — attorno agli 11 gradi — e per la spinta minerale che accompagna un sorso fresco, sapido, nervoso, quasi salmastro, che si apre e si allunga con il tempo nel calice. Il 2016, a quasi dieci anni dalla vendemmia, dimostra quanto un vino naturale, se ben fatto, possa reggere e anzi migliorare nel tempo, mantenendo intatta la sua energia. Una bottiglia che racconta non solo un terroir ma una precisa idea di vino, quella di Tom Lubbe, un visionario con le mani sporche di terra, il naso nel bicchiere e lo sguardo piantato tra le sue vigne ventose.

Andrea Petrini

Andrea Petrini, il “giovin fanciullo” del gruppo. Il suo giornale online è Percorsi di vino.


LEGGI ANCHE