Stavo assaggiando un ottimo vino giovane (cioè da bersi giovane o giovanissimo) assieme al produttore e mi ricordo di averne un cartone da 3-4 anni in cantina. Così affermo che lo lascerò ancora a maturare e lui mi sorprende dicendo “Forse è meglio se non lo fai e lo bevi adesso, perché non è un vino fatto per invecchiare molto.”
Questa frase mi ha fatto riflettere su una tendenza che, pensandoci bene, non è sempre così scontata.
Far degustare vecchie annate di vini normalmente da bere giovani e oramai diventata una consuetudine, un vero e proprio mantra, e viene utilizzato da qualsiasi denominazione o produttore. Per dimostrare alta qualità si segue così la strada comunicativa dell’invecchiamento, cioè “i nostri vini, pur se fatti per essere bevuti giovani, sono di qualità perché invecchiano bene e questo dell’anno X ne è la prova”.
Niente in contrario, per carità, specie se si parla di denominazioni storiche, importanti e soprattutto “dotate” di vitigni e vini da invecchiamento, ma perché per dimostrare che i vini che si vendono giovani o giovanissimi sono buoni si devono “scomodare” le vecchie annate e non puntare sulla qualità attuale del vino giovane?
Vediamo di capirci meglio: la qualità media dei vini italiani, in particolare di quelli (bianchi, rosa, rossi, spumanti e frizzanti) da bere giovani è indubbiamente salita negli ultimi 15-20 anni. Questo grazie a molteplici fattori: tecniche agronomiche in vigna e enologiche in cantina, macchinari più performanti, le molte attenzioni in più che ricevono uve e vini etc.

Ma per far capire quanto sia cresciuta la qualità i consorzi e/o i produttori di vini da bere giovani (quelli che sino a ieri si definivano “d’annata”) si affidano quasi sempre al passato, presentando in degustazione come garanzia di qualità vini prodotti 10-20-30 anni fa e traslandola al presente.
Il meccanismo devo dire che funziona perché noi giornalisti assaggiamo il vino della cantina x o della denominazione y di molti anni fa e quasi sempre, “sdoganando” la loro tenuta nel tempo, diamo una valenza positiva anche ai prodotti attualmente in commercio.
Quindi parlare bene di un vino (da bere giovane) di X anni fa salire l’immagine del produttore o della denominazione e se ne avvantaggiano i vini giovani da vendere e bere adesso.
Ma la stragrande maggioranza di chi produce vini da bere giovani li vende subito e spesso vengono consumati prima della prossima vendemmia. E per fortuna, perché se i consumatori prendessero per oro colato i risultati degli assaggi di vecchie annate e mettessero i vini in cantina per anni, centinaia e forse migliaia di aziende andrebbero in crisi nera.
C’è da considerare, per chiarezza, anche un altro fattore: i miglioramenti generalizzati non solo hanno di fatto allungato la vita di qualsiasi vino che prima si beveva nell’arco di un anno, ma hanno anche spostato in avanti il momento migliore per consumarlo.
Detto questo io mi domando perché chi produce gli “ex vini d’annata” deve puntare a miracol mostrare con vecchie annate e non invece spostando, dal punto di vista della comunicazione, semplicemente in avanti di 2/3 anni la godibilità di quel vino, senza andare a scomodare “i nonni”. Poi è giusto presentare la propria storia, ma non vediamolo come l’unico modo per far capire la qualità dei nostri prodotti.
Qui entra in gioco anche il concetto distorto di “grande vino”, che si da per scontato sia solo quel vino che può invecchiare molti anni.

Credo sia venuto il momento di ridiscutere dalla base questo concetto, non per sminuirlo ma per ampliarlo e adattarlo alle condizioni attuali, dove dei vini giovani sono “di fatto” grandi vini, perché profumati, complessi, equilibrati, persistenti e senza dover andare a scomodare le bottiglie negli angoli dimenticati di cantina. Il parametro del lungo invecchiamento lasciamolo da parte per, appunto, i vini da lungo invecchiamento e per quelli che vengono venduti a suon di migliaia di euro: la qualità di un vino da bersi giovane non può risiedere nel poterlo bere vecchio, è un controsenso.
Io credo che far assaggiare tutti questi vini nel loro momento migliore, che può essere dopo 2/3/4 anni, puntando sul fatto che sono buoni appena entrati in commercio e ottimi dopo alcuni anni, possa far capire meglio la reale qualità di una produzione e permettere ai consumatori di acquistarli e consumarli con una maggiore consapevolezza.
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