“Passo la parola al dottor Tachis” fulminea la sua risposta “Nemmeno infermiere!”
Così Giacomo Tachis volle rimarcare durante un convegno la sua distanza da quel mondo dell’enologia universitaria toscana che tanti studi aveva fatto ma non aveva mai creato un vino, grande o piccolo che fosse.
Giacomo di vini grandi invece ne ha fatti tanti e con la mano dell’innovatore. Piemontese trapiantato in chianti fu lui a convincere il marchese Niccolò ed il giovane Piero ad utilizzare per i rossi toscani quel piccolo fusto di rovere sconosciuto da noi ma tanto usato in Francia. Fu lui a provare a fondere il Sangiovese toscano con uve bordolesi come il Cabernet Sauvignon e fu ancora lui il padre per niente putativo di vini che il mondo ci invidia come il Tignanello e il Solaia, per non parlare del Sassicaia, e scusate se è poco.
Amava i potenti vini rossi sardi forse per i silenzi che quelle terre gli portavano e riuscivano a fargli scordare il lavoro di routine, a cui un grande come lui si sottoponeva giocoforza.
Ricordo con grande affetto alcuni incontri, sempre giocati sull’eleganza e il profondo rispetto dell’interlocutore e ricordo quasi con una lacrimuccia quando l’altro padre del grande vino toscano del dopoguerra, Giulio Gambelli, si “gloriava” (per come poteva farlo Giulio) della stima e dei complimenti di Tachis.
Oggi questi due grandi uomini, che tanto hanno fatto per tutti noi che amiamo il vino, si sono ritrovati e forse, tra un silenzio garbato e l’altro, stanno già pensando a come fare altri vini divini.
Che la terra ti sia lieve Giacomo.