Trento DOC: miglioramenti tra mal di pancia4 min read

Mai avevamo assaggiato così tanti Trento DOC e mai avevamo avuto sensazioni così diverse e contrastanti. Sensazioni molto più positive che negative ma, trovandoci in una situazione di crescita e quindi incerta, credo sia bene mettere per iscritto anche le più piccole sfumature.

Più di sessanta campioni cominciano ad essere un spettro abbastanza probante, soprattutto perché all’appello mancano aziende che oramai hanno deciso di non inviarci i vini e altre appena nate che hanno preferito rimandare la prova all’anno prossimo. Quest’ultime sono proprio la notizia più importante per il territorio e cioè che oramai fare Trento DOC è diventato di moda e così molti piccoli si stanno lentamente attrezzando. Magari non arriveranno a risultati eclatanti nel breve periodo ma sicuramente formeranno quello zoccolo duro quantitativo su cui poter poi crescere qualitativamente. La riprova di quanto dico è negli assaggi degli ultimi due anni, che hanno visto grandi miglioramenti da parte di cantine per anni relegate nel gruppo delle comparse.

In particolare quest’anno l’exploit di una piccola cantina accanto alle conferme di altre ci fa ben sperare per il futuro di questa denominazione. Denominazione che, ripetiamo, è forse l’unica possibile valvola di sfogo per tanto chardonnay trentino che altrimenti rischia di non trovare mercato.

Veniamo ai risultati degli assaggi. Non ci possiamo certo dire insoddisfatti: una media stelle di 2.66 è perfettamente in linea con i punteggi medi della Franciacorta e questo vuole semplicemente dire che oramai esistono almeno due zone spumantistiche italiane  da scegliere non in base alla qualità ma alla tipologia preferita (e magari al prezzo). Proprio sulla tipologia abbiamo avuto il primo piccolo mal di pancia. Se fino ad uno o due anni fa il Trento DOC poteva rientrare nella categoria “più austero e meno piacione” oramai questo è solo un retaggio del passato. Mediamente i vini ci sono sembrati un po’ più arrotondati, tendenzialmente più morbidi, probabilmente con un grammo (o due) di zucchero in più.

Questo non è certo un male ma potrebbe esserlo nel momento in cui un consumatore si trova di fronte a bollicine abbastanza simili provenienti da zone diverse. A quel punto può contare il prezzo (e qui il Trento DOC è ancora leggermente avvantaggiato) o l’importanza del marchio, e quello dei cugini bresciani è molto più conosciuto.

Quindi attenzione: va bene avere più aziende,  naturalmente va benissimo avere un generale miglioramento qualitativo, ma evitiamo di farlo “franciacortizzandosi”, specie nel momento in cui dall’altra parte stanno mediamente “trentinizzandosi”, cioè presentando bollicine leggermente più austere e asciutte.  In questa discussione non rientrano naturalmente quei marchi che da molti anni sono affermati a livello mondiale: il loro stile è deciso, netto, riconoscibile. Tuttavia mi permetto di notare che, per aiutare la denominazione in un momento così cruciale, il marchio Trento DOC dovrebbe essere più in vista sulle etichette.

Ma lasciamo il vino bevuto per arrivare a quello “parlato”. Il fatto che il Trento DOC venga visto come l’ancora di salvezza per tanto vino trentino pare stia creando notevoli attriti sul fronte della gestione di questo bel volano enoico. Le classiche situazioni intricate all’italiana, dove da una parte c’è il novello Consorzio di Tutela del Vino Trentino e dall’altra il Consorzio del Trento DOC che si guardano in cagnesco e cercano di sfilarsi reciprocamente il portafoglio che gestisce la promozione.

 

Su tutto questo vigila (si fa per dire) la politica locale che, avendo la giunta provinciale in scadenza, rimanda da mesi ogni decisione a dopo le elezioni del prossimo 27 ottobre.  Insomma, esponenzialmente alla qualità del vino si alza anche il polverone politico per gestirlo: nel frattempo ogni produttore pensa per se oppure cerca di organizzarsi in gruppi più o meno estemporanei.

 

Questo non è certo un bene, specie per un marchio che deve essere ancora digerito e/o conosciuto in molte parti d’Italia: presentarsi uniti e in forze è l’unico modo per sfondare e, anche se è difficile mettere vicini chi produce cinquemila bottiglie con chi ne mette in campo cinque milioni, l’unica strada da seguire è questa. I Franciacortini (almeno a livello italiano) insegnano.

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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