Schiava: la buona risposta altoatesina al rosato?4 min read

Il rischio è di ripetersi e soprattutto di non essere presi sul serio. Già mi immagino i commenti “Lo sappiamo che le schiave ti piacciono, ma non puoi esaltarle più di tanto. Sempre schiave restano!”
Per questo cercherò di prendere alla larga il discorso. Vi rivelo un segreto: uno dei principali motivi per cui quasi 10 anni fa mi inventai la guida ai vitigni autoctoni italiani fu una solenne incazzatura leggendo l’articolo di un importantissimo giornalista enogastronomico italiano che inneggiava alla Schiava: “Che bello-affermava- poter bere in estate un vino cosi non impegnativo, così piacevolmente poco strutturato come una Schiava”. Sapendo perfettamente che per lui il vino più si tagliava col coltello e meglio era, la cosa mi puzzava  sia  di presa in giro sia di cerchiobottismo enologico.  Allora pensai che ci sarebbe proprio voluta una guida che parlasse di quei vini grandi ma non grossi, profumati ma non dal legno, piacevoli e buoni subito senza dover aspettare ( a volte invano) anni luce.

Oggi, dopo la migrazione sul web, winesurf mette sempre ai primissimi posti nelle sue valutazioni i criteri di piacevolezza aromatica e gustativa. Per questo quando incontriamo vitigni come Schiava, Marzemino, Rossese di Dolceacqua  (recente scoperta), Ruchè, Lacrima di Morro d’Alba, Dolcetto (eccetto Dogliani, altrimenti la Nicoletta Bocca mi uccide) e altri che ora non mi vengono in mente, le nostre labbra si allargano in un caldo sorriso di soddisfazione preventiva. Sono tutti rossi da bere giovani, dove la componente aromatica è fondamentale e la partecipazione del tannino secondaria, vini appunto grandi ma non grossi. Pesano , su alcuni di questi vini, ed in particolare sulla Schiava, alcuni macigni non da poco: in primo luogo la scarsa potenza colorante ed in secondo luogo la “vergogna” di essere stato fino a pochi anni fa un vitigno da rese abnormi per vini di bassissimo profilo.

Così la Schiava, gravata di questo storico fardello, non accompagna praticamente mai i suoi bianchi e famosi cuginetti nelle promozioni italiane fatte dalla Camera di Commercio di Bolzano. Quindi questo vitigno Cenerentola (da me così soprannominato alcuni anni fa) resta sempre nelle cantine del castello Alto Adige e praticamente mai lo si incrocia alle degustazioni importanti, quelle dove però vini estremamente piacevoli come Traminer e Sauvignon, ma bianchi e non rubino scarico, la fanno da padrone.

Eppure negli ultimi 10-15 anni sono successe tante cose nel mondo della Schiava, tanti vigneti iperproduttivi sono stati spiantati (e sostituiti da vitigni più di moda e di maggiore introito), si è capito che le rese dovevano diminuire ( senza esagerare…..) e soprattutto l’Alto Adige è diventata una territorio più caldo, tanto da dover piantare  sempre più in alto i vigneti di uve bianche che si basano sulla freschezza e su fini componenti aromatici. Di tutto questo la Schiava ha tratto vantaggio, riuscendo a maturare meglio pur mantenendo le sue peculiari caratteristiche aromatiche. Così oggi ci troviamo di fronte, per esempio a Lago di Caldaro equilibrati e rotondi ed a Santa Maddalena che, pur non avendo i tannini di un Barolo, hanno corpo e struttura da vendere. Se date un’occhiata ai risultati dei nostri assaggi troverete tanti punteggi  alti non a caso e nonostante l’annata sia stata non certo eccezionale.

Resta il problema del colore: mi ha fatto molto piacere sentire Armin Dissertori, Presidente del Consorzio Vini Alto Adige, accettare l’idea di presentare la Schiava come vino rosato (anche se tecnicamente non lo è). Questo potrebbe servire, in un primo momento, a superare alcune reticenze e soprattutto a piazzarsi non sul mercato dei rossi, sicuramente difficile e con concorrenti blasonati ed agguerritissimi, ma su quello dei rosati, che tira di più e dove la concorrenza è certamente più malleabile e meno attrezzata. Si potrebbe iniziare presentandolo come “la risposta altoatesina al rosato” e da li andare avanti.
Ma, pur avendolo scelto come titolo dell’articolo, non voglio mettermi a fare marketing di basso profilo. Vorrei solo vedere i produttori altoatesini veramente convinti, anche sul fronte del rapporto qualità prezzo, di avere in mano un grande vitigno da presentare con orgoglio e non una un qualcosa da tenere in disparte e da proporre e vendere solo nell’orticello di casa.

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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