Assaggi Chianti Classico: inchiantevoli o chiantipatici?4 min read

Il giochino di parole del titolo richiede una spiegazione immediata. Ma prima permetteteci di ringraziare il Consorzio del Chianti Classico per la solita perfetta organizzazione dei nostri assaggi. Assaggi che avevano come base i Chianti classico annata 2011 e le Riserve 2010 ma, come ormai è consuetudine, hanno portato con se vini di annate precedenti entrati adesso in commercio.

Ma veniamo alla spiegazione dovuta, che poi è il concetto su cui ruoterà quest’articolo. Quando un Chianti Classico è fatto come dio comanda, anche se al suo interno ha piccole percentuale di uve non autoctone (leggi Cabernet Sauvignon, Merlot, Syrah), oltre ad essere un signor vino, un vino appunto “inchiantevole”, mantiene una territorialità ben definita, con il sangiovese che rimane padrone del gioco, esprimendosi in alcuni casi addirittura meglio che in purezza.

 

Quando invece il Chianti Classico abiura il suo ruolo, che è quello di rappresentare NEL BICCHIERE uno dei più bei luoghi dove fare vino di tutto il pianeta, allora anche se siamo di fronte a sangiovese in purezza questo non riesce ad esprimersi, mentre se ci sono altre uve queste marcano malamente il vino, portandoci a note dozzinali e generalizzate che sviano il consumatore, facendogli  preferire vini (a quel punto e solo a quel punto) simili  a prezzi più bassi. Questi chianti classico più che cattivi sono “chiantipatici”, cioè sviluppano in me una vera e propria antipatia perchè dicono di essere una cosa e invece non lo sono.

 

Scendiamo nel concreto: l’annata 2011 è stata forse una delle più difficile degli ultimi 20 anni: quel mese di caldo estremo che ha flagellato l’Italia tutta dal 15 di agosto in poi ha veramente rimescolato le carte alla stragrande maggioranza dei viticoltori (non solo chiantigiani). Partendo da questo dato non ci aspettavamo molto dai vini di quest’annata e invece ci siamo dovuti ricredere in più casi.

 

Non solo Sangiovese in purezza, non solo vini di zone particolarmente fresche, ma vini di varie zone e mani enologiche  hanno mostrato freschezza, e piacevolezza accoppiata ad un corpo di buono o ottimo livello. Tutto questo supportato da note aromatiche dove comunque il Sangiovese emergeva.

Accanto a questi vini “inchiantevoli” (attenzione, da non identificarsi solo che quelli che hanno ottenuto in massimi punteggi) abbiamo trovato una serie di “chiantipatici” (anche questi da non immedesimare tout court con quelli che hanno preso i voti più bassi); vini che hanno scelto strade diverse. Da una parte verso una scompostezza ed una ritrosia aromatica non giustificabile dall’essere sangiovese in purezza, dall’altra verso aromi e strutture di bocca non rispondenti al sangiovese (e non mi riferisco solo a contaminazioni con vitigni internazionali…)che  vanno a riequilibrare, secondo il produttore, un’annata difficile. Ma Come si fa a sentire il cassis in dei sangiovese in purezza? Come si fa a trovare sensazioni di prugna matura nei sangiovese chiantigiani di zone alte?

 

Mai come quest’anno, anche se la media stelle è stata uguale e anche leggermente superiore (2.53) agli anni scorsi, i vini si sono divisi nettamente in due distinte famiglie, dove non conta tanto il punteggio in degustazione ma la reale possibilità che quel vino  possa nascere in quel posto in quell’annata.

 

Venendo alle riserve le cose cambiano in meglio per i punteggi medi (2.72 stelle per le 2010, assolutamente non male) ma non molto nella divisione tra vini dove il sangiovese è fondamentale e invece dove, pur mantenendo le percentuali da disciplinare, diventa quasi una comparsa.  Il bello delle Riserve 2010 “inchiantevoli” è l’avere potenza non a scapito dell’eleganza, è in qualche caso l’aver leggermente calcato sul legno non snatura il vino. Una loro lineare potenza, sempre supportata da freschezza e giovanile complessità in evoluzione è forse il trait d’union che lega questi vini, rendendoli da una parte assolutamente chiantigiani e dall’altra notevolmente buoni. Purtroppo ci sono pure alcuni (per fortuna non molti) “Chiantipatici”, vini spesso inespressi e al naso e “quadrati” in bocca, oppure espressi in maniera diversa, con quel 20% di altre uve che snatura il prodotto.   

Mi accorgo adesso di aver usato termini duri, parole forti, ma l’ho fatto per l’amore che porto a questa terra (che è la mia) e a questo vino che ha dalla sua armi che molti altri si sognano: una storia, una visibilità internazionale, un disciplinare elastico, i migliori tecnici italiani e soprattutto un territorio unico ma sempre diverso. In questa terra il concetto di diversità  è sotto gli occhi di tutti, ma si parla di diversità chiantigiana.

Capisco che il sangiovese è un vitigno molto difficile da lavorare, specie se è stato piantato in terreni e zone non molto adatte alla viticoltura, ma la durezza e la scarsa intensità aromatica in un vino che entra in commercio giovane non è facilmente comprensibile e spiegabile solo con l’annata non eccezionale. D’altro canto l’utilizzo sbagliato di altre uve rischia di omogeneizzare il Chianti Classico a zone molto meno blasonate e grida vendetta al cielo.

Per fortuna i “chiantipatici” sono molti, ma molti meno degli “inchiantevoli”.

Carlo Macchi

Sono entrato nel campo (appena seminato) dell’enogastronomia nell’anno di grazia 1987. Ho collaborato con le più importanti guide e riviste italiane del settore e, visto che non c’è limite al peggio, anche con qualcuna estera. Faccio parte di quel gruppo di italiani che non si sente realizzato se non ha scritto qualche libro o non ha creato una nuova guida sui vini. Purtroppo sono andato oltre, essendo stato tra i creatori di una trasmissione televisiva sul vino e sul cibo divenuta sicuramente la causa del fallimento di una nota rete nazionale. Riconosco di capire molto poco di vino, per questo ho partecipato a corsi e master ai quattro angoli del mondo tra cui quello per Master of Wine, naturalmente senza riuscire a superarlo. Winesurf è, da più di dieci anni, l’ultima spiaggia: dopo c’è solo Master Chef.


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