Il Sangiovese, sintesi di alcune conversazioni pubbliche25 min read

A Tamara, luce dei miei occhi.

Ho avuto la fortuna di incontrare, in tempi e in circostanze diversi, i grandi maestri del Sangiovese: Gian Vittorio Baldi, Nello Baricci, Fabrizio Bianchi, Franco Biondi Santi, Paolo De Marchi, Silvano Formigli, Giulio Gambelli, Florio Guerrini, Sergio Manetti, Giuseppe Mazzacolin, Diego Molinari, Piero Palmucci, Adamo Pellecchi, Gianfranco Soldera, Enzo Tiezzi. E ho avuto l’opportunità di confrontarmi con enologi e agronomi che conoscono il Sangiovese meglio di chiunque altro: Franco Bernabei, Remigio e Francesco Bordini, Maurizio Castelli, Giovanna Morganti, Attilio Pagli, Federico Staderini. E ho avuto il privilegio di frequentare produttori che al Sangiovese dedicano (o hanno dedicato) la propria esistenza: Roccaldo Acuti, Patrizio Cencioni, Paolo Cianferoni, Alamanno Contuccci, Claudio Drei Donà, Federico Giuntini, Giuseppe Gorelli, Giovanni Manetti, Martino Manetti, Francesco e Luca Martini di Cigala, Alessandro Mori, Sean O’Callaghan, Roberto Stucchi Prinetti, Beppe Rigoli, Leonardo Salustri. E con loro tante donne, più o meno esperte, ma in ogni caso straordinarie: Laura Bianchi, Patrizia Brogi, Stella di Campalto, Maurizia di Napoli, Dora Forsoni, Angela Fronti, Cristina Geminiani, Gigliola Giannetti, Susanna Grassi, Giovanna Madonia, Elisa Mazzavillani e Monica Raspi. E ancora, tanti bravi vignaioli, tra cui ricordo Paolo Babini, Stefano Berti, Roberto Bianchi, Andrea Bragagni, Federico e Francesco Buffi, Michele Braganti, Gabriele Buondonno, Riccardo Campinoti, Jan Erbach, Leonardo Fattoi, Mauro Giardini, Lorenzo Magnelli, Claudio Monaci, Giacomo Montanari, Andrea Natalini, Luca Orsini, Gianni Pignattai e Gabriele Succi. Sono queste le persone che mi hanno insegnato ciò che so sul Sangiovese e che di tanto in tanto provo a raccontare a chi mi segue.  

A questo proposito sono grato a Davide Bigucci, stimato vignaiolo a Vecciano di Rimini, dell’opportunità che mi ha offerto qualche mese fa, lasciando che io propiziassi un po’ di riflessioni proprio intorno al Sangiovese, confrontandomi con un gruppo di produttori e bevitori curiosi. In verità di Sangiovese non ne abbiamo solo parlato, ne abbiamo anche bevuto, scegliendo circa quaranta bottiglie utili alla conoscenza della più diffusa tra le uve italiane. Dopo le giornate riminesi, ho ripetuto il laboratorio altrove (nelle Marche e in Puglia) e continuerò a parlare di Sangiovese anche nei prossimi mesi (a Ferrara, a Reggio Emilia, a Verona).

 Tra le cose che si imparano, assaggiando i migliori Sangiovese tra Toscana e Romagna, è che possono regalare un sacco di pensieri belli. Proprio mentre scrivo, ho sul mio tavolo gli appunti di qualche bottiglia stappata di recente, per le mie lezioni. Così mi è impossibile non ripensare allo splendido Rosso di Montalcino 2013 di Stella di Campalto (una melodia di carezze, avrebbe detto Dino Campana); al baritonale Brunello di Montalcino Vigneti del Versante 2013 di Pian dell’Orino (Inno alla Gioia in formato liquido); allo struggente Brunello di Montalcino 2010 del Paradiso di Manfredi (come scavare la superficie petrosa del pianeta, con fatica e felicità a un tempo); al solare Romagna Sangiovese Marzeno Cadisopra 2017 di Cà di Sopra (materia, spirito e sapore senza fronzoli); al raffinato Romagna Sangiovese Predappio Riserva Le Lucciole 2015 di Chiara Condello (pienezza, dolcezza e fluidità in perfetta cinesia); al tenace Chianti Classico 2015 Le Cinciole (spremuta di galestri e agrumi); all’etereo Montevertine 2014 di Martino Manetti (petali di vento, profumatissimi); al carnoso Chianti Classico Riserva 2008 di Castell’in Villa (<<soffrirò, morirò, ma intanto sole, vento, vino, trallalà>>); al vigoroso Percarlo 2006 di San Giusto a Rentennano (<<la potenza è nulla senza controllo>>); al meraviglioso Chianti Classico Riserva Caparsino 2000 di Caparsa (energia ed eleganza al servizio del tempo); al crepuscolare Chianti Classico Vigneto La Casuccia 1995 di Castello di Ama (sintesi buzzatiana de “I segreti del bosco vecchio”, tra natura, magia e invisibile); all’immortale, superbo Chianti Classico Riserva Il Poggio 1969 del Castello di Monsanto («camminavo e cantavo, perché, quando sono felice, devo assolutamente canticchiare qualche cosa per me solo>>).

 I numeri non mi piacciono, però ogni tanto serve ricordarli: il Sangiovese occupa una superficie di 53.000 ettari vitati ai giorni nostri (erano 70.000 nel 2010), pari all’8,5% dell’intero vigneto nazionale. Conoscere un po’ di più il Sangiovese significa dunque conoscere meglio una fetta importante dell’Italia del vino, dove è presente da Nord a Sud comparendo in 12 Docg, 102 Doc e 99 Igt. La sua coltivazione è ammessa in 18 delle nostre 20 regioni, e in 67 delle nostre 107 divisioni territoriali. La presenza di gran lunga più rilevante si annota in Toscana (30.000 ettari distribuiti un po’ ovunque, ma con una forte predominanze nel cuore geografico della regione) e in Romagna, i cui 7500 ettari vitati si sviluppano soprattutto a sud della via Emilia, interessando tutte le dorsali collinari incluse nelle provincie di Ravenna, Forlì-Cesena e Rimini. A sorpresa, c’è molto Sangiovese anche in Puglia (circa 6000 ettari concentrati nel Foggiano), benché si abbia più contezza della sua presenza nelle Marche e in Umbria (che invece registrano numeri più piccoli). Seguono Campania, Sardegna, Lazio e Veneto. Non vanno dimenticate infine la Calabria e la Sicilia, dove il Sangiovese è spesso confuso con altre uve oppure conosciuto con curiosi pseudonimi di origini antiche e vernacolari. Fuori dall’Italia è in Argentina che la sua presenza è importante (2300 ettari vitati), dopodiché in Corsica (dove si chiama Nielluccio: 1500 ettari), in California (800 ettari) e in Australia (500 ettari). In termini enologici, alle spalle della Toscana, dove il Sangiovese dona da sempre i risultati più apprezzabili (soprattutto nei distretti del Chianti Classico, di Montalcino e di Montepulciano), l’altro territorio dove la varietà gode di buona narrativa è l’entroterra della Romagna. Proprio da queste due regioni ci giunge la documentazione più credibile che riguardi le sue origini moderne: in Toscana se ne parla dal 1590, in Romagna dal 1672. Detto ciò, non mancano bravi produttori sia nelle Marche (in particolare nel Pesarese e nel Piceno) che in Umbria (fra Torgiano e Montefalco, con qualche outsider anche altrove).

 Se i dati non mi piacciono, ho invece predilezione per la degustazione, ed è attraverso questa pratica che ho provato a raccontare il Sangiovese nelle sopraccitate occasioni pubbliche, provando a esporre alcune mie considerazioni personali. I nostri, sono anni in cui di Sangiovese se ne coltiva meno del passato, ma se ne conosce di più. All’inizio della mia carriera e fino al principio dello scorso decennio, in Chianti Classico, a Montalcino, in Romagna e ancora di più a Montepulciano, la visione viticola e stilistica predominante fu piuttosto schierata in direzione di vini estrattivi e assai confezionati, e ciò vietava o quasi di stabilire un contatto diretto con la matrice varietale del Sangiovese e allo stesso tempo rendeva complicato individuare il suo effettivo rapporto con i diversi territori d’origine. Al contrario, nell’ultimo decennio è diventata un’esperienza molto gratificante assaggiare il Sangiovese d’autore nei suoi luoghi prediletti, grazie a tanti rossi in grado di declinare il profilo varietale in direzione del terroir.

 Alla fine di ogni incontro, spesso mi è stata presentata una domanda, che più o meno ha suonato così: <<Queste cose di cui ci hai parlato dove sono scritte?>>. Per rispondere ho provato a rielaborare gli appunti delle mie conversazioni, facendone una sintesi (trascritta nelle pagine che seguono). Scrivendo queste note ho rispettato il più possibile il linguaggio usato durante le lezioni, perlopiù colloquiale, benché io per primo sappia che quel che passa in una stanza – il contatto, gli sguardi, la gesticolazione, le pause, il confronto, i silenzi – difficilmente si riesce a trasferire su un file di word.

 Escono così, dal trascritto delle mie registrazioni, una serie di sequenze sintetiche attente più all’urgenza di riflettere che alla prudenza di pubblicare, senza richiami di legittimazione e di approfondimento (se non per alcuni stralci di brani specialistici che mi è sembrato opportuno citare). Si tratta anzi di un testo privo di episteme, da leggere “gratia sui”, per passatempo estivo, che invio a Carlo Macchi per il piacere di condividere alcune idee con i miei lettori più fedeli e per lasciare un contributo a chi me lo ha chiesto.

 Il Sangiovese è un vitigno strano. Strano perché origina dove il sole è calore e prende forma dove il sole è luce. Strano perché viene dalla macchia mediterranea e si fa grande tra i boschi; arriva dal Sud e si impone altrove. Per queste ragioni (e forse per altre che non conosco) dona vini che oscillano di continuo fra calore e freschezza, senza schierarsi dalla parte dell’uno o dell’altra.

Il Sangiovese è strano perché in Italia è ovunque, ma solo in poche zone del Paese riesce a strapparci un sorriso. Strano perché più che una varietà è una famiglia varietale con 123 cloni iscritti nel Registro nazionale delle varietà di vite, frutto di un intenso lavoro di selezione che continua ancora oggi e continuerà anche in futuro.

Le due macro-tipologie a cui si fa riferimento, in tema di Sangiovese, sono riferibili al Sangiovese “Grosso” e al Sangiovese “Piccolo”, così definiti per le dimensioni degli acini. Ci sono poi varianti relative alla forma del grappolo, prevalentemente conico oppure cilindrico, al livello di compattezza, alla presenza e al numero di ali, alla forma dell’acino (più o meno tondo, più o meno ellissoidale), all’alta o bassa sensibilità all’acinellatura. I più diffusi cloni toscani ad “acino piccolo” sono: VCR 209, VCR 235; FEDIT 20 CH; FEDIT 22 CH; e poi ve ne sono decine e decine ad “acino grosso”, selezionati soprattutto tra il Chianti Classico e Montalcino da vari costitutori. Il longevo “SS-F9-A5-48” di Lamole (1978); tutta la serie CCL 2000 (da 1 a 7, diffusi a partire dai primi anni 2000);  il celebre B-BS-11 di Montalcino (1978); Janus 10-20-50 di Montalcino (dal 1996 al 2001); Montalcino 42 (1980); VCR 6-5-103 (dal 1994 al 1996). Anche la Romagna possiede una ricca collezione di cloni, tra i quali vanno citati il R24 di Predappio (1969); il VCR 19 di Predappio (1995); il VCR 23 di Vecchiazzano (1995); il ST 12 T di Predappio (1976); il VCR 207 di Todi (2006); il FEDIT 30 ESAVE e il FEDIT 38 ESAVE di Predappio (2000); il SANG VV 101 e il SANG VV 110 di Modigliana (2008).

 Il Sangiovese è strano perché è doppio, femmina in campagna e maschio in cantina. In vigna basterà ammirarne il portamento in piena vegetazione per accorgersene, con la parete di foglie (glabre) molto aperta, deformata, curvilinea, mai muscolare. E poi il suo legno si pota con poca fatica, la sua natura è dolce, senza alcuna rigidezza. La femminilità del vitigno trova conferma nell’attaccamento all’ambiente e al terreno in cui è coltivato; come pure nella sua vistosa fertilità produttiva, che porta grappoli perfino sulla gemma di corona. Per questa ragione si presta a tutte le principali forme di allevamento, comprese quelle a potature corta. In Puglia prevale il tendone, in Toscana (dove un tempo si adoperava il doppio capovolto) e in Romagna oggi si impongono il cordone speronato e il Guyot semplice (che sta sensibilmente prendendo il sopravvento per numerose ragioni agronomiche ed enologiche), senza dimenticare l’alberello, il cui sistema (sia tradizionale che modificato) fu rilanciato una trentina d’anni fa dall’agronomo romagnolo Remigio Bordini, tra i massimi esperti in materia.

Il suo lato femminile lo rende oltretutto adattabile a ogni condizione produttiva, tanto che la vite di Sangiovese può sfornare da 1 kg a 10 kg di uva: in alta collina e su terreni poveri se ne raccolgono meno di 50 quintali per ettaro, in pianura (dove regge gli autunni meglio di tante altre uve più sensibili al marciume) almeno quattro volte tanto. La sua generosità produttiva, la sua capacità di adeguarsi ai più distanti progetti vitivinicoli, la sua costanza nelle rese, sono alla base di una diffusione su scala nazionale che si concretizzò tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, quando tutto il comparto ebbe necessità di ricostruire un sistema produttivo mortificato dai due conflitti mondiali (e prima ancora dalle immani conseguenze della fillossera, rese ancora più drammatiche dall’eterna instabilità politica e sociale di un’Italia da poco unificata). Mezzo secolo fa, la superficie vitata complessiva del nostro Paese superava comodamente il milione di ettari e il consumo pro capite di vino si aggirava intorno ai 120 litri, che escludendo donne e bambini, significava 300 litri all’anno bevuti da un italiano medio. In quel contesto il Sangiovese fu a lungo una mamma che allattava i propri figli senza lamentarsene troppo.

Maschio è invece il vino. Un maschio di muscolatura lineare, duro nel pelo tannico ma non folto né statico. Non è un vino profumatissimo, in quanto i suoi odori paiono come distillati e filtrati, e pertanto qualche volta inafferrabili. La florealità è peculiare ma priva di enfasi, il frutto è rosso ma essenziale e le sue qualità olfattive si fanno più apprezzabili dopo qualche anno di bottiglia e soprattutto in piena fase terziaria, quando evidenzia attraenti variazioni sul tema del sottobosco.

<<La florealità giovanile è alimentata da quantità interessanti di linanolo e a-terpineolo presenti nelle bucce dell’uva Sangiovese. Nella polpa e nel succo del Sangiovese sono invece presenti anche diversi norisoprenoidi come il vitispirano, il TDN, il b-damascenone e gli actinidòli che partecipano in modo attivo agli odori di frutta e ai sentiri di canfora e incenso che il Sangiovese genera nel corso dell’invecchiamento. Studi analitici di identificazione e dosaggio dei componenti odorosi nel vino Sangiovese hanno messo in evidenza anche la presenza di nerolidolo e citronellolo, che in particolare dopo qualche anno di affinamento in vetro possono contribuire a conferire leggere sfumature di scorza d’arancia>>. [Luigi Moio, I profumi del Vino; Mondadori]

Con un approccio empirico, il Sangiovese potrà consegnare note di viola, rosa e peonia; di amarena, ciliegia, fragola, lampone e melagrana; timo, rosmarino e salvia. Col passare degli anni sarà più facile percepire sentori di agrumi scuri, di chinotto, di rabarbaro, di cola, di finocchio, di tabacco, di torrefazione, di pepe, di ginepro, di terra umida e di fungo. E anche di cuoio, carne, sangue, fegato, caramello, incenso, eucalipto, liquirizia, gomma da guarnizione. E ancora di tè, genziana, metallo e aerosol marino.

È forte, il Sangiovese, ma longilineo: se fosse un pugile tirerebbe di boxe nella categorie dei Leggeri, dove non conta la forza bruta ma una scherma agile, dinamica, tecnica. Il vino è così tenace da temere più la riduzione dell’ossidazione: più facile che un vino di Sangiovese possa subire i contraccolpi di una drastica chiusura anziché quelli di un’eccessiva ossigenazione, e questo anche in annate calde, che alla prova dei fatti al Sangiovese non fanno così male, come del resto è ragionevole presupporre anche alla luce delle recenti ricerche genetiche, i cui esiti vanno confermandone un pedigree ricco di ascendenze e discendenze meridionali.

È il 2002 quando si inizia a parlare di genitori del Sangiovese, e a oggi, a distanza di 17 anni, la discussione è ancora aperta. Il primo traguardo è stato l’identificazione di un legame di parentela con il Ciliegiolo, senza però chiarire quale varietà abbia generato l’altra. Nel 2007 viene proposta una prima soluzione: il Sangiovese sarebbe figlio del Ciliegiolo e del Calabrese di Montenuovo, una varietà individuata nella provincia di Napoli, dove fu importata dalla famiglia Stringari, originaria dell’enclave albanese della Calabria e arrivata a Napoli, per l’esattezza nei Campi Flegrei, nel XIX secolo. Nondimeno, uno studio approfondito compiuto sempre nel 2007, stravolge completamente quel punto di vista, e individua il Sangiovese non come figlio, ma come genitore del Ciliegiolo, insieme al Muscat Rouge de Madère (detto anche Moscato violetto). Questa seconda proposta scientifica gode di maggior sostegno, anche perché i genitori del Muscat rouge sono stati a loro volta individuati e non contraddicono la teoria. Oltretutto va detto che il Ciliegiolo compare in letteratura molto dopo il Sangiovese (nel 1932, laddove il Sangiovese nel 1590). Nel 2010, escono i risultati di un ulteriore indagine scientifica, questa volta da parte dell’Istituto di Conegliano, che conferma il lavoro precedente. Nel 2012 un altro gruppo di ricercatori, individua un’altra soluzione possibile (pur senza escludere le due ipotesi precedenti): il Sangiovese potrebbe essere figlio del Ciliegiolo e del Negrodolce, una vecchia varietà della provincia di Foggia. Quel Negrodolce si è poi scoperto essere identico al Morellino del Valdarno, parente strettissimo del Sangiovese. Se le ascendenze del Sangiovese rimangono ancora oggi una domanda senza alcuna risposta certa, si è invece scoperto che il Sangiovese ha una lunga teoria di discendenze distribuita in un’area geograficamente ampia. Le parentele di primo grado (genitore-figlio) non riguardano solo i vitigni minori della Toscana (come il Foglia Tonda, ad esempio), ma soprattutto varietà ben note dell’Italia meridionale, come il Gaglioppo in Calabria, il Perricone, il Frappato e il Nerello Mascalese nel in Sicilia. Non è finita. A Orsara, in provincia di Foggia, nelle colline della Daunia, si coltiva da secoli un vitigno chiamato Tuccanese. Ecco, quel vitigno all’analisi del DNA si è rivelato corrispondente al Sangiovese. E che dire poi di alcuni vecchi vigneti quasi abbandonati in Calabria, nei quali sono stati identificati alcuni ceppi (Negrello calabrese, Vigna del Conte, Corinta Nera), il cui DNA corrisponde a quello del Sangiovese? Nel 2014, per non farci mancare nulla, altri ricercatori in una ricognizione sul patrimonio varietale della Sicilia effettuata attraverso l’analisi del DNA, individuano il Sangiovese sotto i nomi di Cela-Cela (nel Palermitano), e di Preventivo (nel Messinese). Inoltre altri studi precedenti rilevano che Sangiovese e Ciliegiolo sono molto presenti perfino nell’Etna, senza tuttavia essere riconosciuti come tali, naturalmente nei vecchi vigneti delle contrade etnee, frammisti con Nerello Cappuccio e con altre vitigni senza identità. Infine, va ricordato che con lo pseudonimo Calabrese si chiamava il Sangiovese in alcune aree della Toscana, in antichità. [La Stirpe del Vino; Attilio Scienza e Serena Imazio; Sperling & Kupfer]

Sarà con tutta probabilità per una così complessa origine che è pressoché impossibile bere un grande Sangiovese (a Montalcino, in Chianti Classico, a Montepulciano, in Romagna) che sia diretto, immediato, del tutto scoperto e facile da interpretare. Anche quando dona le espressioni più grandi (talvolta grandiose) e di assoluta levatura internazionale, impone ai vini un lessico piuttosto provinciale, non del tutto comprensibile a chi non ne abbia esperienza. Fare esperienza significa prendere possesso del mondo, esserne padroni e non servi, dice Alessandro Baricco. Serve anche per il Sangiovese, che spesso dona vini obliqui e sorprendenti, che salgono, scendono, curvano, si stringono e poi si aprono, riscattando una mancanza di linearità attraverso una personalità notevole. Non è solo prerogativa del Sangiovese nascondersi e camuffarsi, ma con molti Montalcino, con tanti Chianti Classico, con i migliori Vino Nobile di Montepulciano e con certi Sangiovese  romagnoli, il testacoda è sempre in agguato. E succede così molto spesso che le sue lacune diventino punti di forza; gli spigoli, dolcezza; le chiusure, luce; l’austerità, ricchezza.

Non dico che per apprezzare fino in fondo i vini del Chianti Classico e di Montalcino devi essere un genio che comprenda perfettamente Faulkner o un critico degno di Benjamin. E forse non servirà nemmeno l’inaudito talento ermeneutico di Castagno né la micidiale conoscenza enologica di Cernilli, però molti dei migliori vini originati da Sangiovese esigono un pubblico competente. Si deve essere gente che da anni vive con una mano sola, perché l’altra è avvitata sul calice. Si deve essere bevitori che hanno stappato molte bottiglie di un certo tipo e che sanno padroneggiare il gusto e la lingua del vino. Si deve essere abituati alle interruzioni, alle strozzature, alle eccedenze e alle defezioni. Si deve essere allineati a una certa idea di attesa. E di pazienza.

Col vino ci vuole sempre pazienza, ma col Sangiovese si mette in discussione perfino Hermann Hesse: <<l’intelligenza è bene, ma la pazienza è meglio>>. Con il Sangiovese la pazienza è tutto. Se il degustatore è per antonomasia il traduttore del linguaggio vinoso, e ben conosciamo quali siano le complicazioni della traduzione, allora tradurre il Sangiovese è attività ad alto coefficiente di difficoltà, tanto i suoi rossi vivono di continui sottintesi. Di cose dette solo in parte.

Alessandro Zamboni, un mio caro amico che da quattro anni non c’è più (mi manchi, amico mio!), durante una gita a Montalcino mi disse che il Sangiovese è un vitigno insolito, quasi pirandelliano, a cui bisogna dedicare molto tempo. Ed allora che mi ricordò l’adagio di Antoine de Saint-Exupéry, secondo cui «è il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante». Avevano ragione entrambi (Alessandro e Antoine): il Sangiovese appare davvero un assedio di maschere e di suoni, senza che vi sia una sola voce giusta per le centinaia di facce che indossa. In tal senso è sfuggente; sfuggente fino a sembrare un graal trovato e perso mille volte. E quando pensi di averne finalmente intercettato tutti i segreti, ne arrivano altri e poi altri ancora.

Sì, bisogna dedicargli molto tempo, perché non c’è mai spazio per una singola soluzione quando si tratta di Sangiovese. Perfino e forse soprattutto in aree di enorme talento e di consolidata storicità come Montalcino e Chianti Classico, di esso non esiste l’archetipo assoluto. E più ti ostini a trovarlo, più il Sangiovese ti affoga di diversità, centuplicando le sue smorfie. Questo suo polimorfismo un po’ ci confonde – perché non riusciamo a tenere quasi mai in pugno l’unicità della faccenda – e un po’ ci eccita (per le stesse ragioni).

Volendo lasciarsi prendere dall’entusiasmo, il Sangiovese è anche poesia, perché come la poesia nasconde sempre dietro di sé un segreto, un’elisione, una punteggiatura particolare. Questo essere poesia mi piace molto del Sangiovese. E mi piace ancora di più il fatto che certi Sangiovese alla poesia aggiungano la follia: si inquietano di zone d’ombra e di incandescenze emozionali, e non si può mai sapere quale sia la traiettoria dei loro comportamenti. Poetici, folli e anche romantici: i Sangiovese più buoni della mia vita li ricordo romantici, li ricordo più belli che spettacolari, più ispirati che definiti, più profondi che superficiali. Poetici, folli, romantici e pure imprevedibili: se mi apro alla memoria delle mie bevute, l’imprevedibilità è pressoché una certezza. A volte sono stati loquaci, altre mi hanno indispettito con il loro silenzio; a volte erano materia carnosa, altre troppo leggeri per i miei sensi grossolani; a volte erano colorati, altre pallidi; a volte erano frutto, altre fiore; a volte pacifici, altre guerrieri; a volte seducenti come un sogno, altre severi come un incubo; a volte volavano, altre sembravano impantanati in una normalità senza scampo; a volte erano di millimetrica classicità, altre apparivano naîf e indisciplinati.

In mezzo a tanti dubbi che mi tormentano, una delle poche certezze che ho interiorizzato è che quando è in giornata, il miglior Sangiovese possibile è in grado di rapire l’attenzione dei bevitori alternando atteggiamenti borgognoni ad altri langaroli, con una spruzzata di Rodano e una scodata di Bordeaux. Però “quel miglior Sangiovese possibile” non è affatto ovunque: tanto l’uva è generosa, plastica, ubiquitaria, quanto il vino è incapace di accettare la mediocrità. Senza il talento degli uomini, delle donne, delle vigne, del terreno, del clima e di tutto ciò che orbita intorno alla sua produzione (fattori che devono integrarsi tra loro in perfetta sintonia) non si ottiene alcun Sangiovese di alto profilo, nemmeno quando la storia e la letteratura ci illudono del contrario.  E per quanto esso sappia come detto adattarsi a diversi ambienti di coltivazione e alle più differenti forme di allevamento, per darsi al meglio predilige terreni drenanti e poco fertili, un clima abbastanza asciutto, una buona luminosità e incisive escursioni termiche, insomma non proprio condizioni così facili da trovare ovunque.

Allo stesso tempo, non è per nulla scontato produrre un Sangiovese al ribasso che sia accettabile, dignitoso, gradevole, poiché il suo vino non vive di acuti, non possiede aromaticità spiccate, non è predisposto a esibire tutto e subito. Se a questo sommiamo la sua proverbiale fragilità cromatica, possiamo provare a comprendere le ragioni di coloro che storicamente gli hanno affiancato altre uve più o meno affini, più o meno locali, più o meno internazionali (a seconda delle epoche, delle mode e delle esigenze produttive, stilistiche e commerciali di ciascun produttore).

A questo proposito andrebbe revocata in forse l’acclamata versatilità enologica del vitigno, secondo cui dall’uva Sangiovese è possibile ottenere il massimo per ogni tipologia/categoria: ottimi rossi giovanili e rossi di straordinaria longevità; come pure eccellenti rosati e perfino buone basi per la spumantizzazione. Se sulla carta tutto ciò suona possibile, alla prova dei fatti è perlomeno improbabile, perché è solo in determinate (e selettive) condizioni che il Sangiovese diventa un vino appagante. Ed è realmente appagante quando viene concepito per la produzione di rossi destinati all’evoluzione, mentre per un consumo rapido è a mio avviso meno attraente di tanti altri vitigni/vini italiani, dal Nebbiolo al Rossese, dalla Schiava al Marzemino, dal Frappato alla Corvina, e così via.

Per quanto mi riguarda, il Chianti Classico è il luna park del Sangiovese, il luogo dove più si avvera il suo “caos genetico”. E dove il vitigno, coltivato su una superficie enorme, esprime tutte le sue facce e parla tutte le sue voci, facendo divertire i grandi amatori. Qui i rossi che più mi piacciono fanno della misura, del portamento e della vitalità gustativa le loro migliori qualità, senza con ciò apparire né troppo verticali né troppo rigidi (quando lo sono, mi piacciono molto meno). Nei migliori Chianti Classico la muscolatura è ben presente ma tonica, poiché trainata da una nobile acidità (piena di sapori e di colori) e da tannini evidenti quanto raffinati nella grana: in questo quadro il fraseggio al palato risulta sempre ben articolato, perfino nelle versioni che per ragioni di territorio, di annata e/o di stile aziendale si fanno più esibite. In ogni caso, i Chianti Classico che prediligo bere e raccontare non mostrano mai colori fitti e hanno facilmente qualcosa in meno nel peso e nel calore, e qualcosa in più sul piano della freschezza e del ritmo rispetto ai vini di Montalcino, a proposito dei quali qualcosa va detta.

 Innanzitutto, il territorio montalcinese, più piccolo e omogeneo di quello del Chianti Classico, ci mette meno in difficoltà quando si tratta di generalizzare. La sua posizione geografica, più meridionale e più scoperta in direzione del Mediterraneo, è all’origine di fattori climatici e fenologici (maggiore luminosità e ventilazione, temperature annuali più elevate, maturazioni in media più precoci) che fanno dei Rosso e dei Brunello di Montalcino vini in media più aperti, concessivi (e talora esuberanti) di quelli chiantigiani. La ragione per cui a Montalcino il Sangiovese basta a sé stesso, al di là della storia e della giurisprudenza, è che solo lì riesce a farsi così compiuto, senza troppe “interruzioni”, senza troppi spigoli, senza troppe zone d’ombra. All’opposto di come il Sangiovese si comporta in Chianti Classico, dove molto spesso le acidità sono mediamente più alte, le alcolicità mediamente più basse e il profilo espressivo dei vini generalmente meno disponibile, Rosso e Brunello dichiarano una ricchezza e una rerefazione aromatica tipica dei vini mediterranei. Se il Chianti Classico è un rosso a tinte fresche e brillanti, Montalcino esprime colori più caldi e opachi; se il Chianti Classico è un rosso che evoca la primavera, Sangiovese a Montalcino rimanda al principio dell’autunno e ai suoi tramonti esplosivi; se nel Chianti Classico la finezza del Sangiovese è aristocratica, Rosso e Brunello di Montalcino ne esibiscono il lato più sensuale; se il Chianti Classico trova spesso il suo equilibrio nelle durezze, Rosso e Brunello mettono in evidenza un’armonia ben più carnale, in un registro di ampiezza e maturità.

Maturità che non fa difetto nemmeno ai vini della Romagna, il terzo polo del Sangiovese (per qualità) dopo Chianti Classico e Montalcino. Per tanti lettori, leggere che il territorio romagnolo – ferito a morte dall’enorme peso di una cooperazione aliena alla qualità e penalizzato da un’immagine a dir poco infelice – si piazzi subito alle spalle delle due più grandi denominazioni toscane potrebbe apparire una novità o addirittura una provocazione. Tuttavia gli osservatori più attenti sanno bene che la porzione collinare delle province di Ravenna, Forlì-Cesena e Rimini vanta una storia e una vocazione di lunga militanza, espressa attraverso un sostanzioso numero di bottiglie che fin dalla metà degli anni Cinquanta del Novecento hanno saputo farsi apprezzare da non pochi bevitori curiosi. Gli Zoli e i Nicolucci di Predappio, i Baldi di Modigliana, i Pezzi di Bertinoro, i Drei Donà di Vecchiazzano, i Ferrucci di Castelbolognese, i Geminiani di Marzeno e soprattutto l’attuale generazione, la più numerosa e ispirata di sempre, hanno seminato e stanno seminando tanto, nella speranza di raccogliere qualche consenso in più, nei prossimi anni. I Sangiovese romagnoli sono molto diversi rispetto a quelli prodotti nel cuore storico della Toscana: più padani che non mediterranei, più influenzati dalla pianura che non dall’Appennino, più paesani che non raffinati, si fanno apprezzare per la cospicua presenza di frutto e per un sorso fisico, solido, tornito. Peculiarità che nei casi più risolti assicurano la riconoscibilità, il carattere e non di rado la longevità per attrarre gli appassionati del buon bere.

Appassionati che probabilmente conoscono la storia del Vino Nobile di Montepulciano, visto che da almeno quattro secoli la fama dei suoi rossi splende attraverso le testimonianze di Sante Lancerio, bottigliere di Papa Paolo III Farnese (che lo descrisse <<perfectissimo tanto il verno quanto la state>>), del poeta aretino Francesco Redi (che in un suo poema si spinse in un elogio alquanto iperbolico <<Montepulciano d’ogni vino è re!>>) e di Giovan Filippo Neri, governatore del regio ritiro di San Girolamo che a metà Settecento utilizzò per primo l’aggettivo “nobile” per un vino locale. Due secoli più tardi, alla fine degli anni ’50 del Novecento, quando la mezzadria si stava sgretolando e le campagne cominciavano a spopolarsi, la speranza che si trattasse realmente di un vino “nobile” deve aver probabilmente incoraggiato le vecchie e povere famiglie di agricoltori poliziani a resistere alla tentazione di abbandonare quelle terre, e allo stesso tempo convinse i pochi produttori di allora, da Fanetti a Baiocchi, da Bologna a Contucci, da Pilacci alla Cantina Sociale (che nel tempo ha poi assunto il nome di Vecchia Cantina di Montepulciano) ad adottarne il nome. Un nome che per un paio di decenni è stato sinonimo di potenza, colore, grinta tannica e austerità olfattiva e che per fortuna negli ultimi tempi va modificando la propria immagine, grazie a tanti vini sensibilmente più raffinati e armonici di un tempo (anche per un utilizzo più cospicuo e consapevole del Sangiovese).

Francesco Falcone

Nato a Gioia del Colle il 6 maggio del 1976, Francesco Falcone è un degustatore, divulgatore e scrittore. Allievo di Sandro Sangiorgi e Alessandro Masnaghetti, è firma indipendente di Winesurf dal 2016. Dopo un biennio di formazione nella ciurma di Porthos, una lunga esperienza piemontese per i tipi di Go Wine (culminata con il libro “Autoctono Si Nasce”) e due anni di stretta collaborazione con Paolo Marchi (Il GiornaleIdentità Golose), ha concentrato per un decennio il suo lavoro di cronista del vino per Enogea (2005-2015). Per otto edizioni è stato tra gli autori della Guida ai Vini d’Italia de l’Espresso (2009-2016). Nel 2017 ha scritto il libro “Centesimino, il territorio, i vini, i vignaioli” (Quinto QuartoEditore). Nell’estate del 2018 ha collaborato alla seconda edizione di Barolo MGA, l’enciclopedia delle grandi vigne del Barolo (Alessandro Masnaghetti Editore). A gennaio 2019, per i tipi di Quinto Quarto, è uscito il suo ultimo libro “Intorno al Vino, diario di un degustatore sentimentale”.  Nel 2020 sarà pubblicato il suo libro di assaggi, articolazioni e riflessioni intorno allo Champagne d’autore. Da sei anni è docente e curatore di un centinaio di laboratori di degustazione indipendenti da nord a sud dell’Italia.


LEGGI ANCHE