Afrodisiaci particolari:ruolo del pepe e del vino per lo sviluppo nel Medioevo5 min read

Di questi tempi capita raramente di imbattersi in una lettura divertente, intelligente, carica di grande umorismo e che val la pena di raccontare e condividere.

Si tratta di “Allegro ma non troppo” di Carlo M. Cipolla (dove M. non sta per Maria), un volumetto edito dal Mulino e suddiviso in due parti: la prima dedicata al ruolo delle spezie (e del pepe in particolare) oltre che del vino nello sviluppo economico del Medioevo, mentre la seconda va ad analizzare le leggi fondamentali della stupidità umana.

 

Naturalmente ci concentreremo sulla prima parte, riservandoci di affrontare in un secondo momento un argomento di così grande attualità qual è la stupidità umana.

 

Cipolla, da grande storico dell’economia qual era (è scomparso nel 2000), si sofferma ampiamente sulla funzione socio-demografica del pepe nell’Alto Medioevo. La tesi di partenza è che una delle cause del declino dell’Impero Romano sarebbe da ricercarsi in un uso eccessivo del piombo. Ignorando che il piombo rendeva sterili e stitici, i romani bollivano anche il vino in recipienti di piombo per meglio conservarlo, ma così facendo, credendo di sterilizzare il vino, i romani non si rendevano conto che sterilizzavano sé stessi.

 

E così i barbari ebbero la meglio, le violenze e le scorrerie portarono a tassi di mortalità particolarmente elevati, la devastazione era ovunque, una costante dei secoli bui dell’Alto Medioevo.

 

Iniziato il nuovo Millennio – si perdonino le consapevoli eccessive semplificazioni – l’Occidente organizza e promuove le prime Crociate, certamente per liberare la Terra Santa dall’oppressione musulmana, ma anche per aprire nuove vie di comunicazione per il rifornimento di spezie dall’ oriente e di pepe in particolare.

Perché, si sa, il pepe è un potente afrodisiaco e rendendolo disponibile in notevoli quantità, all’epoca poté contribuire decisamente ad una nuova e a sua volta potente crescita demografica.

 

Con l’aumento del pepe in circolazione, crebbe l’esuberanza degli uomini i quali, con tante belle donne in giro chiuse nelle loro cinture di castità imposte dai Crociati onde evitare brutti scherzi durante la loro assenza, provarono un improvviso interesse per la lavorazione del ferro. Quindi il pepe fu il volano per la nascita di un’economia indotta nel settore della metallurgia. Ed è allora che nascono i nomi Smith, Fabbri, Ferrari, Lefevre ecc., ed è grazie alle loro abilità che la crescita demografica registra un’ulteriore impennata.

 

In questo succinto racconto a questo punto entra in scena l’Inghilterra. Il clima piovoso di quei territori favoriva ottimi e abbondanti pascoli, e innumerevoli greggi di pecore rendevano disponibili grandi quantità di lana, peraltro di ottima qualità.

 

Furono gli italiani a comprendere per primi l’importanza delle lane inglesi per trasformarle in stoffe raffinate. E così si aprì un canale commerciale che consentì agli inglesi – in prevalenza monaci in quanto la lana veniva venduta da conventi e monasteri – di arricchirsi.

I monaci si arricchirono, ma essendo appunto monaci, non potevano con i loro introiti acquistare e consumare troppo pepe a causa gli effetti collaterali sopra descritti. Quindi, non  restava loro che il vino. Ma il vino inglese era pessimo (Guglielmo il Conquistatore infatti quando decise di invadere l’Inghilterra si portò con sé una buona scorta di vino francese) e gli inglesi dal canto loro ne erano perfettamente consapevoli, come erano consapevoli della necessità di una strategia per garantirsi approvvigionamenti di vino degno di questo nome.

E qui entra in gioco la figura di Eleonora di Aquitania (conosciuta anche come la donna che volle farsi due volte regina), che nel 1137 andò in sposa a Luigi VII re di Francia portandogli in dote i magnifici vigneti del Ducato di Aquitania.

Il problema (si fa per dire) era che Eleonora non nascondeva certo la sua bellezza, la sua intelligenza, la sua intrigante esuberanza, esaltata grazie anche ad un forte consumo di pepe. Luigi VII dal canto suo era invece un uomo pio, innamorato sì di sua moglie ma incapace di soddisfarla intellettualmente e fisicamente. La sua compagnia preferita erano i monaci e le loro liturgie.

 

Re Luigi nel 1144 partecipò ad una Crociata ed Eleonora, che come abbiamo visto non era tipo da restarsene a casa chiusa in una cintura di castità, seguì il marito e rimase colpita dalle meraviglie e dai piaceri dell’Oriente.

Ma questa avventura, anziché rinsaldare il già traballante matrimonio, finì col guastarlo del tutto e pochi anni dopo Luigi chiese al Papa l’annullamento, il cui decreto venne emesso nel 1152.

 

Eleonora non mise tempo in mezzo: poco più di un mese dopo l’annullamento, sposò Enrico Duca di Normandia (tra l’altro figlio di Goffredo il Bello…), per via di madre erede al trono d’Inghilterra, trono su cui Enrico salì nel 1154.

 

Ed è qui che tutto va al suo posto: Enrico aveva ereditato dal padre la Normandia, il Maine, l’Anjou e la Touraine. Sposando Eleonora si assicurò l’Aquitania e così il Re d’Inghilterra si ritrovò a controllare  non solo l’Inghilterra ma anche più dei due terzi del suolo francese, con i magnifici vigneti che vi prosperavano.

Fu da allora che il vino francese cominciò ad affluire regolarmente ed in quantità notevoli sul mercato inglese.

 

Ma soprattutto, ci ricorda Cipolla, “Fu allora che il capitalismo medievale raggiunse il suo apice: Il pepe, il vino e la lana erano i principali ingredienti della prosperità generale, il pepe mantenendo naturalmente il ruolo di quello che Marx chiamava il motore della storia”.

 

Si narra poi che circa due secoli più avanti sia sorta una grave disputa tra il re di Francia e il re d’Inghilterra per la proprietà dei vigneti in terra di Francia, disputa che sfociò nella “Guerra dei cent’anni” (anche se ne durò 116) dove Giovanna d’Arco si battè valorosamente affinché il vino francese restasse sotto le regole francesi di Appelation controlée.

 

 Ma questa è un’altra storia…

Fabrizio Calastri

Nomen omen: mi occupo di vino per rispetto delle tradizioni di famiglia. La calastra è infatti la trave di sostegno per la fila delle botti o anche il tavolone che si mette sopra la vinaccia nel torchio o nella pressa e su cui preme la vite. E per mantener fede al nome che si sono guadagnato i miei antenati, nei miei oltre sessant’anni di vita più di quaranta (salvo qualche intervallo per far respirare il fegato) li ho passati prestando particolare attenzione al mondo del vino e dell’enogastronomia, anche se dal punto di vista professionale mi occupo di tutt’altro. Dopo qualche sodalizio enoico post-adolescenziale, nel 1988 ho dato vita alla Condotta Arcigola Slow Food di Volterra della quale sono stato il fiduciario per circa vent’anni. L’approdo a winesurf è stato assolutamente indolore.


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