Il Valentini de noantri9 min read

Non so se l’interessato mai leggerà questo pezzo che lo riguarda, e nemmeno se, nel caso in cui lo leggesse, se ne capirebbe perfettamente il titolo, visto che dubito fortemente che sappia chi sia stato Edoardo Valentini.
L’interessato è Antonio Pulcini, produttore di vino nato e cresciuto in quel di Monteporzio Catone, nell’area dei Castelli Romani.
Il signor Antonio oggi possiede due aziende: la Colli di Catone (http://www.collidicatone.it/), acquistata nel 1974, e la Casal Pilozzo acquistata nel 1988.
Pulcini, fino al 1985 sbarca il lunario producendo grandi quantitativi di vini semplici, corretti ma senza particolari pretese, alla Colli di Catone.
In quell’anno decide però di misurarsi nella produzione di un Grande Vino locale. Un Frascati dunque, ma di quelli come ormai non ce n’erano più: pieno, minerale, complesso, magari anche longevo e sicuramente in grado di reggere di nuovo, come un tempo faceva, l’abbinamento con i robusti piatti della tradizione romana, dall’abbacchio a scottadito alla pasta alla gricia, dalla coda alla vaccinara a tutta la saporita cucina di quinto quarto.
Pulcini voleva ricreare il Frascati così com’era nell’età “pre-fillossera” (giunta ai Castelli Romani solo nell’immediato dopoguerra) e “pre-boom economico”, quel Frascati prodotto con alte percentuali di Malvasia Laziale (detta anche Malvasia Nostrale o Malvasia Puntinata), oltre a Bellone, Bombino (o Bonvino) e Cacchione e non con la quasi totalità di Malvasia di Candia e Trebbiano, come invece è lo stato dai giorni dei reimpianti ad oggi.
Pare poi, che anche alcuni strani equivoci abbiano contribuito a minare la struttura del Frascati dai giorni critici della ricostruzione dei vigneti fino al 1966, anno in cui la promulgazione della DOC rese questi fraintendimenti addirittura ufficiali.
Uno su tutti è quello della confusione fatta fra Malvasia di Candia e Malvasia Rossa, due uve molto diverse, ma che tendono entrambe ad un colore ramato della buccia con il raggiungimento della maturità fenolica.
Molti produttori, dopo i reimpianti su piede americano che hanno visto il massiccio innesto dei super produttivi Trebbiano e Malvasia di Candia, hanno continuato a chiamare “Malvasia Rossa” ciò che in realtà era ormai Malvasia di Candia, per il semplice fatto che la vedevano rossa di colore. Il grappolo molto (ma molto) più grosso della seconda rispetto alla prima, doveva essere dunque semplicemente attribuito all’effetto del portainnesto americano, e non al fatto che si trattasse di due varietà di uva ben distinte. La vera, meravigliosa Malvasia Rossa, responsabile fino a quel tempo dei profumi inebrianti del Frascati Cannellino, si incamminò così, tristemente verso l’oblio.
Quegli stessi produttori, tuttora sostengono che la Malvasia di Candia nel Frascati ci sia sempre stata, non sapendo (almeno spero, volendo credere alla loro buona fede) che è invece l’altra varietà, ciò a cui essi alludono!
Molti, fra i produttori più anziani, continuano a chiamare la Malvasia di Candia “Malvasia Rossa”.

Ma torniamo al nostro. Nel 1985 Antonio decide di fare questo vino partendo da un 100% di Malvasia Laziale: un Frascati non conforme al disciplinare dunque, che allora di questa uva ne permetteva fino ad un massimo del 30%.
Dopo il “giro di vite” del disciplinare del 2004, Antonio ha dovuto smettere di etichettare il Colle Gaio come DOC Frascati e l’ha fatto diventare una IGT Lazio.
In realtà però, una differente etichettatura per il Colle Gaio esisteva già da diversi anni: il suo importatore americano infatti, aveva chiesto al signor Pulcini la cortesia di etichettarglielo come IGT, perché purtroppo negli Stati Uniti “non molti seri bevitori avrebbero accordato fiducia ad un Frascati”.
L’uva per questo vino viene da un singolo vigneto, ed il vino finisce per prendere il nome del Cru stesso: Frascati Superiore “Colle Gaio”.
Il risultato è notevole.
Nell’anno successivo, il 1986, giudicando dalle analisi delle uve, Antonio pensò di poter produrre un Colle Gaio da infarto: ha dovuto invece buttare via tutto perché, per dirlo con le sue parole “faceva veramente schifo, ma mica ti può uscire sempre tutto bene no?”. Oltre al 1986, il Colle Gaio non è stato prodotto nemmeno negli anni 1988, 1992 e 1993, perché le uve non erano sufficientemente buone.
Intanto nel 1988 Antonio acquista l’azienda Casal Pilozzo, che intende indirizzare verso la produzione di vini di qualità: il nostro super Frascati sarebbe dovuto logicamente rientrare in questa gamma, ma ormai era nato come “Colli di Catone” e così è rimasto.
Una recente mini-verticale di Colle Gaio ci ha convinti del fatto che non solo questo vino dovrebbe essere su tutte le più importanti guide, ma che si tratti di uno di quei grandi bianchi da invecchiamento che la maggior parte dei consumatori ritiene esistano tanto quanto gli unicorni, gli ippogrifi e Babbo Natale.
Abbiamo degustato in sequenza il 2002, il 1998, il 1996, il 1994 ed il 1990: i nostri occhi strabuzzavano sempre più, man mano che la degustazione andava avanti. Troverete le note degustative di ciascun vino in fondo all’articolo, ma ora vorrei soffermarmi sul produttore, che nel panorama vitivinicolo odierno è senz’altro una mosca bianca.

Classe 1941, ha conseguito con orgoglio il diploma di 5° elementare. Lui è il suo stesso agronomo ed enologo, ma lo è senza aver studiato né agronomia né enologia, se non direttamente sul campo. Forse è proprio per questo che la nostra chiacchierata sull’argomento mi è sembrata tanto gustosa quanto facile da seguire, contrariamente a quanto mi succede parlando con molti enologi “studiati”, con i quali mi sento (ciò che sono, e cioè) un ignorante in materia.
Pulcini è un enologo “istintivo”, un geniale “bianchista” secondo me, che ha teorie tutte sue, spesso e volentieri in totale contrasto con quanto espresso dalla scienza “agroenologica” moderna.

Le alte densità d’impianto per lui sono una sciocchezza, e così anche i vini botritizzati: produce un ottimo passito da uve Malvasia Laziale, lottando strenuamente contro la botritis cinerea che stupidamente insiste per fargli produrre (con tutta probabilità) un capolavoro, ma lui rifiuta questo “invito” e si intestardisce, perché “se ti vuoi fare un succo d’arancia mica te lo fai con le arance marce, no?”.

D. Allora Antonio, come lo fai questo Colle Gaio?
R. Le uve sono raccolte a mano e messe in bigonci (contenitori da 70/80 kg, mica in cassette da due etti e mezzo, N.d.R.). Le uve arrivano in cantina nel giro di due ore dalla raccolta. Si pigiano le uve e dopo la pigiatura vanno in vasche di acciaio inox a circa 12-13 °C per tre o quattro giorni. Dopo questo tempo c’è la sgrondatura, e il mosto fiore torna in acciaio inox a fare la fermentazione alcolica a circa 16°C. Di solito fermenta fino a fine Marzo…

D. 70/80 kg? Ma non hai paura che le uve sul fondo si schiaccino troppo e che ti parta magari qualche fermentazione non voluta?
R. E che, in due ore ti parte una fermentazione?

D. Ok, capito. Inoculi lieviti selezionati?
R. Mai. Personalmente sono stanco di sentire gli stessi nasi nei bianchi prodotti dalle Alpi alle Piramidi, tu no?

D. Si…ma i lieviti indigeni non ti danno nessun problema in fermentazione?
R. No, proprio nessuno: credo che se non li ammazzi in vigna con troppi trattamenti “anti questo” e “anti quello”, sono perfettamente in grado di portare avanti una perfetta fermentazione alcolica. D’altronde chi meglio di loro conosce le uve da fermentare? Se esageri con i trattamenti in vigna allora li debiliti: certo che poi ti servono i lieviti selezionati…

D. Continua con il Colle Gaio…La pulizia? L’affinamento?
R. Pulizia normalissima con bentonite e farina fossile, mentre per l’affinamento, una volta finita la fermentazione alcolica il vino sta ancora circa 4 mesi in inox, dopodiché viene imbottigliato e sta per un paio d’anni in bottiglia nelle grotte della cantina prima di essere commercializzato.

D. Allora il legno non è proprio indispensabile per dare complessità e struttura ad un bianco…
R. A me pare proprio di no, tu che dici?

2002
Bel naso essenziale, con lievi accenni del meglio, che però deve ancora venire. Palato estremamente equilibrato e ben sapido, che al momento non si esprime ancora al meglio delle sue possibilità. Aspettare per credere.

1998
Dev’essere stata una grandissima annata per la Malvasia Laziale a Monteporzio Catone. L’intensità al naso e al palato è da pelle d’oca, per non parlare della complessità, con note di cedro, pietra focaia, salvia e idrocarburi. La sua consistenza e la sua integrità in bocca manderanno alla vostra mano l’ordine di mettere mano al portafoglio e comprarne un po’ di bottiglie finché ce n’è.
Fra altri 5 anni, chi ha ceduto a questo impulso, potrà ridere dell’autocontrollo di chi invece non lo ha fatto.

1996
Il più fresco di tutti, considerando l’età. Agli aromi agrumati di cedro e limone, si aggiunge una affascinante, netta nota di caffè appena tostato. In bocca l’equilibrio azzeccato fra acidità e corpo garantisce per i molti anni che questo vino ha ancora davanti a se.

1994
Il meno convincente ed il meno vibrante: detto questo firmerei col sangue per poterne bere tutti i giorni. Il colore era il più intenso di tutti, e qua e la al naso si coglieva qualche accenno di ossidazione incombente. Ha la complessità che ci si aspetta da un Colle Gaio, ma non la sua proverbiale lunghezza gustativa: beviamolo tutto ora prima che sia troppo tardi.

1990
Assolutamente un rosso (e che rosso!) travestito da vino bianco. Fa impressione pensare che molti Brunello e Barolo non hanno retto mentre invece questo Frascati si. Paragonabile per complessità ad un grande Riesling alsaziano, con mineralità sapida da vendere ed un corpo da mille e una notte. Lungo sul palato, con una chiusura che sembra non arrivare mai. Tocca sovente aprire due bottiglie per trovarne una in stato di grazia, ma quando la si trova è una vera festa dei sensi!

P.S. (abbreviativo per “Provocazione Sottile”):
La DOC Frascati prevede 4 tipologie di vino: il Frascati DOC, il Frascati Superiore DOC, il Frascati Cannellino DOC e il Frascati Spumante DOC. Perché non aggiungere una quarta tipologia che potrebbe essere (ad esempio) il Frascati Classico DOC?
Studiando insieme i parametri, i paletti da fissare, e giungendo alla creazione di questa nuova tipologia, i vantaggi a mio avviso sarebbero molteplici:
– Si permetterebbe, a quei produttori che lo desiderino, di produrre un Grande Frascati nel pieno rispetto del disciplinare;
– Quanto sopra non obbligherebbe in nessun modo i produttori di oceaniche quantità di Frascati DOC (diciamo di “non spiccato” carattere) ad adeguarsi a nuove e per loro onerose normative;
– Una corretta comunicazione attraverso i media potrebbe far arrivare al mondo il messaggio “Riecco a voi il Frascati”;
– L’immagine prestigiosa e di alta qualità del nuovo Frascati Classico DOC avrebbe “a caduta” un effetto positivo anche sulle altre tipologie
Uno degli appunti che potrebbero essere mossi a tale iniziativa è: “ Si, bello, ma poi chi aderisce alla nuova tipologia?”. Beh, durante i giorni di Verona ho di mia iniziativa sondato il terreno con alcuni produttori: una volta esposta l’idea, sette di loro (su sette intervistati) si sono detti interessati.

 

Andrea Sturniolo
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